

RECENSIONIDVDLIBRI
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SETTEMBRE 2023
UN VIAGGIO NELLA STORIA
(prima parte: da Montbéliard
a Le Trèport)
Due giorni prima di
Ferragosto abbiamo lasciato il caldo afoso di
Milano per un giro in auto
–
di un paio di settimane - nel nord della Francia,
considerando la Normandia come nostra meta
principale. Circa trent’anni
fa un nostro lungo tour europeo (in Panda!)
aveva toccato Mont-Saint-Michel, ma non ci
eravamo spinti oltre; e in successivi viaggi
avevamo esplorato altre zone francesi, senza più
tornare in questa regione. Eccoci dunque, come
prima tappa logistica, dopo l’attraversamento
della Svizzera, in Franca-Contea, a Montbéliard,
dominata dal bel castello dei duchi di Württemberg; una grande piazza deserta, vie vuote,
tutto chiuso. Per fortuna abbiamo trovato una
piccola brasserie aperta per una cena veloce, in
mezzo alle case colorate del bel centro storico.
La mattina, percorrendo strade di campagna
solitarie e bellissime, in un silenzio quasi
surreale, tra
mucche al pascolo ed estese
coltivazioni, ci siamo fermati a Ronchamp, dove
l’architetto Charles-Edouard Jeanneret-Gris,
noto universalmente come Le Corbusier, progettò,
tra il 1950 e il 1955, la Cappella di Notre Dame
de Haut, in cima a una collina. Qui, in
precedenza, sorgeva un piccolo santuario oggetto
di antica devozione. Dichiarata Patrimonio
UNESCO, è un capolavoro di architettura
religiosa brutalista, in calcestruzzo armato;
bianchissima, dalle forme sinuose, con un grande
tetto scuro a barca, presenta all’interno una
luce straordinaria, naturale, che giunge
dall’alto e da aperture laterali. Una sorta di
edificio-scultura, dove si percepisce la purezza
dell’arte e dello spirito. Nelle vicinanze si
trovano il Rifugio del pellegrino, che
originariamente accoglieva gli operai addetti
alla costruzione, la Casa del cappellano e la
Piramide della pace, simile a una piccola
piramide azteca, commissionata dai veterani di
Ronchamp che volevano ricordare i loro morti
sulla collina nel 1944. Renzo Piano, nel 2011,
vi aggiunse il Monastero, con un orto molto
curato, l’Oratorio e le portinerie all’ingresso.
Questa prima visita valeva già il viaggio!
Procedendo lungo strade
secondarie siamo poi passati da Luxeuil-les-Bains,
centro termale, con la bellissima abbazia gotica
di Saint-Pierre et Saint-Paul (XIV sec.),
fondata originariamente da San Colombano nel VI
sec., poi ricostruita più volte. Un incredibile
organo monumentale del 1617, in rovere
intagliato, troneggia all’inizio della navata,
sorretto da Atlante. Il chiostro, dalle colonne
possenti che poi si alleggeriscono nelle volte e
nelle arcate, invita senz’altro alla meditazione.
E proseguendo, nei pressi di Vaudémont, eccoci
su un’altra collina, nuovamente in un luogo di
alta spiritualità, la Colline de Sion. Si nota
già da lontano, lungo la strada, questa altura
calcarea dominante che porta sulla cima, a 540
m, un monumento. Il luogo fu occupato fin dal
Neolitico medio
–
lo testimoniano ritrovamenti quali selci
lavorate a punta di lancia
–
e divenne una roccaforte dei Galli durante l’invasione
romana, vista la sua importanza strategica,
nonché sito di antichi riti pagani legati al
culto del dio della guerra e della dea della
fecondità. È il rilievo più alto della Lorena.
In realtà scopriamo che i monumenti sono due, a
pochi minuti di auto l’uno dall’altro, opposti
sulla collina: il primo è un santuario mariano,
la basilica di Notre-Dame de Sion, risalente al
XVII secolo ma più volte rifatta, meta di
pellegrinaggi; il secondo, che ha maggiormente
attratto la nostra attenzione, ci è apparso
inizialmente come una sorta di strano, grande
obelisco, al centro di un vastissimo prato,
raggiungibile tramite un curioso sentiero a
zig-zag. Si tratta invece di una “lanterna dei
morti”, simile a quelle romaniche che servivano
a illuminare i cimiteri medioevali. Fu costruita
nel 1928 ad opera dell’architetto Achille
Duchêne per omaggiare lo scrittore e politico
Maurice Barrès (1862-1923), autore del romanzo
“La collina ispirata”, ambientato proprio sul
colle di Sion. Sulla base della lanterna si
leggono iscrizioni che richiamano alcuni brani
del romanzo: “L’orizzonte che circonda questo
pianoro è quello che circonda tutta la vita; dà
un posto d’onore alla nostra sete d’infinito, e
allo stesso tempo ci ricorda i nostri limiti”.
Il panorama è fantastico, a quasi 360°; e il
silenzio assoluto, insieme a un vento piuttosto
forte, ha amplificato il nostro senso di totale
solitudine, portandoci quasi a un tuffo nello
spazio-tempo. Il nostro viaggio nella storia era
appena iniziato!
Scesi dall’altura, abbiamo
fatto tappa a Vaucouleurs, un piccolo centro
noto in Francia per essere il luogo da cui
Jeanne d’Arc, nata nel 1412 nel vicino villaggio
di Domrémy, partì, il 23 febbraio 1429, per
guidare l’esercito francese contro gli inglesi,
più volte vittoriosi nella Guerra dei Cent’Anni.
Vi si trova perfino un tiglio secolare, che si
ritiene essere l’unico testimone vivente della
partenza di Jeanne: secondo la leggenda, si
sarebbe improvvisamente riempito di foglie
proprio quel giorno, per consentire al cavallo
della Pulzella di nutrirsene… Il tiglio si trova
presso le vestigia del castello, che un tempo
aveva ben 17 torri lungo un doppio cerchio di
mura; qui Giovanna d’Arco, sedicenne, certo
soggetta ad allucinazioni interpretate come
visioni e voci celestiali che la invitavano a
combattere per la Francia, fu ricevuta più volte
dal capitano Robert de Baudricourt, che alla
fine si convinse del fatto che la fanciulla
avesse effettivamente ascoltato parole di santi,
ricevendone un’ “investitura” di tutto rispetto.
Le diede quindi la propria spada; gli abitanti
del villaggio, entusiasti, le fornirono un
cavallo e abiti maschili; e Giovanna dunque
partì, passando dalla Porte de France, per
raggiungere il Delfino Charles a Chinon.
Sottoposta per settimane a prove teologiche e
forse anche ad esorcismi, alla fine ottenne di “accompagnare”
l’esercito a Orléans contro gli inglesi che
l’assediavano: fu l’incredibile inizio della
riscossa francese e la prima di altre importanti
vittorie che rovesciarono le sorti della guerra.
Il piccolo Museo di Vaucouleurs dedicato a
Giovanna d’Arco, in una piazza dominata da una
sua bella scultura in bronzo, va senz’altro
visitato. Nella chiesa di Saint-Laurent, intere
vetrate (ottocentesche) hanno come temi episodi
fondamentali della sua vita.
Il pernottamento a
Saint-Mihiel
–
in un curioso albergo ricavato da una vecchia
stazione dismessa
–
ci ha consentito di iniziare un altro percorso
storico, più recente. Dopo aver visitato la
splendida chiesa di Saint-Michel, con la
scultura lignea “La Pàmoison de la Vierge” (XVI
sec.) di Ligier Richier, e aver camminato per le
vie completamente deserte della cittadina, non
riuscendo neppure a trovare un locale aperto per
cenare, ci siamo imbattuti in un imponente
monumento commemorativo dedicato “A nos morts,
1914-1918 / 1939-1945)”; e il giorno seguente,
dopo pochi chilometri, eccoci alla “Nécropole
nationale de Dieue”, un cimitero militare che
conserva le spoglie di circa 300 soldati morti
nella zona durante la Prima Guerra Mondiale.
Croci bianche e perfino inquietanti sagome di
soldati a grandezza naturale tra le tombe ci
hanno introdotto alla successiva visita di una
città molto significativa: Verdun. Tutta la zona,
attraversata dalla Mosa, fiume a breve distanza
dalla linea del fronte, che si trovava più a est,
fu infatti teatro di una battaglia tra le più
importanti della Guerra ‘14-’18: i combattimenti
tra i francesi e i tedeschi ebbero qui inizio il
21 febbraio 1916 per concludersi dieci mesi dopo,
il 19 dicembre, con uno spaventoso bilancio di
morti, feriti e dispersi (circa un milione!).
Per ricordare e ripassare queste terribili
pagine di storia abbiamo visitato la Citadelle
Souterraine di Verdun, sull’Avenue du Soldat
Inconnu, un po’ fuori dal centro della città ma
raggiungibile agevolmente a piedi. Si tratta di
una lunga serie di gallerie scavate per circa 7
km, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del
XX, a scopo difensivo, essendo Verdun una città
fortificata di notevole importanza militare, una
piazzaforte considerata porta d’ingresso verso
Parigi. Le gallerie sono buie e davvero gelide
(la temperatura è inferiore a 10 °C, occorre
coprirsi bene anche in agosto!), e si percorrono
a bordo di una sorta di vagoncino automatico da
quattro posti, indossando una maschera-visore
per entrare nella realtà virtuale di un soldato
dell’epoca (Jean Rivière), insieme ai suoi
commilitoni. Si rivivono scene precedenti la
battaglia e poi i suoi momenti salienti. La
visita, piuttosto coinvolgente e impegnativa,
dura circa un’ora; l’ingresso è vietato ai
bambini minori di 8 anni. Nel bel centro storico
si può salire al Monument à la Victoire e aux
Soldats de Verdun, del 1929, e passare davanti
al bianco e massiccio Monument aux Morts et aux
Enfants (1928). Ma occorre spostarsi di qualche
chilometro dalla città per trovarsi davvero sul
campo di battaglia. Ci siamo recati all’Ossuaire
de Douaumont, luogo molto simbolico e commovente.
Progettato nel 1919, in stile art nouveau, in
cemento, e inaugurato nel 1932, raccoglie le
ossa di circa 130000 soldati senza nome
ritrovate nella zona alla fine della guerra. In
una galleria lunga 133 metri vi sono tombe
virtuali, mentre il vero ossario è sotterraneo:
crani, femori, vertebre, mandibole di coloro che
poco più di cent’anni fa erano ragazzi
giovanissimi, sani, protesi verso il futuro e
ricchi di speranza, maciullati invece
dall’insensatezza umana, si possono scorgere
ammassati attraverso i vetri di basse
finestrelle. Il sacrario ha la forma dell’elsa
di una spada interrata, ergendosi a metà della
galleria un’alta torre, una vera lanterna dei
morti, in cui si può salire per arrivare in cima.
E dall’alto il panorama è impressionante e
angoscioso: croci, croci e ancora croci, un
immenso cimitero, quindicimila croci bianche tra
l’erba verdissima. Douaumont fu completamente
distrutto e dichiarato “villaggio morto per la
Francia”, insieme ad altri cinque; il paesino di
Fleury-devant-Douaumont si può comunque “visitare”
camminando in un bosco, tra alberi, pietre e
lapidi che ricordano che in quel luogo vi era la
scuola, in un altro la chiesa, là il fornaio,
qui una fontana...Un vero parco della memoria,
per non dimenticare i suoi quattrocento abitanti,
che nel 1913 vi vivevano senza immaginare la
loro sorte. Nei pressi, sorge appunto il
Memoriale di Verdun, per chi volesse ancora
approfondire quanto accadde.
Ci siamo dunque spostati più
a nord, nelle Ardenne, dove il pernottamento
nella bellissima Charleville-Mézières, fondata
all’inizio del ‘600 dal duca Carlo I di Gonzaga-Nevers,
che volle qui una Place Ducale davvero magnifica,
ci ha invece portato verso una parentesi più
letteraria che storica. È infatti la città che
ha dato i natali ad Arthur Rimbaud (1854-1891),
poeta straordinario, che appena sedicenne era in
grado di sconvolgere e sedurre con i suoi versi
gli intellettuali del tempo, tra cui Paul
Verlaine, di cui divenne amante (ma la relazione
fu burrascosa, tra ubriacature d’assenzio, colpi
di coltello e di pistola, risse furibonde).
Rimbaud ebbe una vita vagabonda, dissoluta,
spesso più in fuga che in viaggio, animata da
molteplici interessi che perseguiva senza
esitazioni, cogliendo il malessere, le ambiguità
e le contraddizioni della società del tempo e
cavalcando tutto questo con disinvoltura. I suoi
occhi chiarissimi vedevano “oltre”: occorreva
inventare un nuovo linguaggio, rivoluzionare il
mondo. Per riscoprire l’autore di Une saison en
enfer abbiamo visitato il museo a lui dedicato,
ricavato da un antico mulino sulla Mosa, ricco
di documenti, lettere, fotografie, ritratti,
sculture, manoscritti e oggetti; e, proprio
dirimpetto, si trova la casa
–
la Maison des Ailleurs
–
al numero 7, in cui visse dal 1869 al 1875. Sul
lungofiume, sedie metalliche recano incisi versi
di Rimbaud e di altri poeti francesi.
La tappa seguente,
Saint-Quentin, in Piccardia, si è rivelata
interessante soprattutto per la basilica
dedicata al santo stesso, martirizzato e
decapitato nei pressi, il cui cadavere, secondo
la leggenda, fu gettato nella Somme e poi
miracolosamente ritrovato. In parte ricostruita
dopo i danni della Prima Guerra Mondiale, la
basilica presenta una navata molto alta, belle
vetrate, un organo monumentale e un grande
labirinto bianco e nero sul pavimento, risalente
alla fine del ‘400.
Il labirinto era concepito
come un vero e proprio cammino di preghiera che
i fedeli dovevano percorrere in ginocchio, quasi
in sostituzione del pellegrinaggio in Terra
Santa. È un tema ricorrente, simbolico per la
religione cristiana, chiaro come la luce del
bene e scuro come il buio del peccato: si
incontra anche nella stupenda cattedrale di
Amiens, bellissima città sulla Somme, che
abbiamo raggiunto dopo aver percorso
un’ottantina di chilometri verso ovest. La
cattedrale di Notre-Dame lascia davvero
stupefatti per la sua bellezza: iniziata nel
1220 e terminata nel 1288 è senz’altro un
capolavoro di arte gotica, incredibilmente
sopravvissuto a guerre e rivoluzioni. Le volte
della navata centrale superano i 40 m di altezza;
le vetrate rappresentano una sorta di mistero
alchemico (pare che i colori usati fossero
misture segrete di origine orientale, forse
persiane); le statue della facciata, degli archi,
delle gallerie a fianco dei tre portali e sopra
di essi, nonché i magnifici “quadri” scultorei
presso l’altare maggiore, rappresentano episodi
e personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento,
così completi che la cattedrale ha meritato
l’appellativo di “Bibbia di pietra”.
Una breve
passeggiata ci ha portato poi al Musée de
Picardie, in un bel palazzo ottocentesco in
stile Secondo Impero, che ospita una delle più
ricche collezioni d’arte di Francia. Nelle
splendide sale, su tre livelli, si ammirano
opere preziose, alcune prelevate dalla
cattedrale per meglio preservarle; e anche la
sezione di archeologia è molto interessante.
Proseguendo la visita di Amiens, abbiamo
scoperto angoli caratteristici sul lungofiume,
con belle case d’epoca e localini dove cenare o
prendere un aperitivo, in particolare nel
quartiere di Saint-Leu. Qui, da un ponte sulla
Somme, si nota una curiosità: la statua di un
uomo a grandezza naturale si innalza dall’acqua
del fiume. Fa parte di un trittico, installato
nel 1993, dello scultore tedesco contemporaneo
Stephan Balkenhol; le altre due statue sono
appese alle facciate di due case in Place du
Don. Scopriamo che è nota come “L’uomo sulla
boa” ed è uno dei simboli di Amiens, anche se a
volte viene vandalizzata da chi ha forse bevuto
qualche birra di troppo.
Come in quasi tutta la
Francia, il verde è curatissimo: si spende certo
parecchio per la manutenzione di aiuole fiorite
e decorazioni floreali, su ponti, lampioni,
viali, praticamente ovunque. L’Italia, a parte
qualche rara eccezione, è purtroppo lontana
mille miglia da questa linea di pensiero, che è
invece indice di grande civiltà e senso estetico
per il paesaggio urbano. Chapeau per i sindaci
francesi e per i loro cittadini!
Tra gli alberi del Boulevard
Jules Verne, ecco un bel monumento in marmo,
scolpito da Albert Roze nel 1909 su commissione
dell’Accademia di Scienze e Lettere, dedicato al
geniale scrittore, che ne era membro: infatti ad
Amiens visse per più di trent’anni e vi morì.
Nativo di Nantes, Jules Verne (1828-1905) vi si
trasferì con la moglie Honorine e il figlio
Michel nel 1872. Qui scrisse e pubblicò alcuni
dei suoi romanzi inclusi nella raccolta dei “Viaggi
straordinari”: è del 1873, per esempio, “Il giro
del mondo in 80 giorni”, che metteva in luce la
questione della linea internazionale del
cambiamento di data (che sarebbe stata istituita
undici anni dopo, nel 1884, alla Conferenza di
Washington). Naturalmente non abbiamo mancato la
visita alla sua abitazione (in realtà, a una
delle sue residenze, perché vi restò solo dal
1882 al 1900), al numero 2 di rue Charles
Dubois: è un’elegante palazzina con una torre,
trasformata in casa-museo di notevole fascino.
Tra ritratti, libri, oggetti personali,
locandine di film tratti dai suoi capolavori,
emergono note biografiche curiose e continui
riferimenti ai suoi personaggi più famosi.
Scopriamo che, nonostante una laurea in legge
conseguita solo per compiacere il padre avvocato,
il giovane Jules, che aveva rivelato ben presto
doti non comuni di narratore, riuscì ad evitare
impieghi giuridici e ad avvicinarsi a quanto lo
interessava di più, ossia alla scienza, fonte
per lui di grande ispirazione. E ciò che
scriveva e che al suo tempo era considerato
fantascienza, frutto dell’ingegno di uno
scrittore visionario, nel corso di neppure un
secolo in buona parte si è trasformato in realtà…
Lasciata Amiens, dopo una
sosta ad Abbeville, dove si può visitare la
bella Collegiata di Saint-Vulfran, eccoci a Le
Tréport: finalmente sul mare, o meglio
sull’oceano, in Alta Normandia.
[Hotel, prenotati tramite
Booking:
a Montbéliard: Kyriad
Montbéliard Sochaux, 34 Avenue du Marechal
Joffre
a Saint-Mihiel: Hotel de la
Gare, Place de la Gare
a Charleville-Mézières: Cesar
Hotel, 23 Avenue du Marechal Leclerc
ad Amiens: Ibis Budget Amiens
Centre Gare, 15 Rue Dejean]
15 settembre 2023, Anna Busca
UN VIAGGIO NELLA STORIA
(seconda parte: da Le Tréport
a Cherbourg)
Le coste dell’Alta Normandia,
che si affacciano sulla Manica, sono una lunga
sequenza di bianche falesie calcaree, simili a
quelle più famose di Dover dalla parte inglese.
Soggette alla continua erosione da parte delle
onde - alzate dal vento che spesso soffia con
una certa intensità
–
sono interrotte da spiagge di ciottoli,
interessate per larghi tratti dalle maree, che
qui presentano una notevole ampiezza. Le Tréport,
che per noi ha costituito l’ingresso “ufficiale”
nella regione, presenta tutte le caratteristiche
di un borgo marino normanno: e per questo attrae
molti turisti.
Trovare il parcheggio non è stato
facile; ci siamo poi ritrovati a camminare tra
una fastidiosa folla vociante, spesso intenta a
scegliere souvenirs o pesce fresco da numerose
bancarelle. Nella parte più antica, che si
raggiunge salendo una scalinata, si può visitare
la chiesa di Saint-Jacques, al cui interno si
ritrovano simboli marinari, reti da pesca,
modellini di navi appese, ex voto di chi scampò
a un naufragio: il paese, prima di diventare
centro turistico, era un semplice villaggio di
pescatori. Ci siamo poi messi in coda per
prendere una funicolare
–
inaugurata nei primi anni del
‘900
e rimodernata - a ingresso gratuito, che in poco
più di un minuto porta in alto, sulla falesia,
sopra l’abitato. Molto bella la vista delle
case, del porticciolo e delle acque di color
verde-azzurro, tra grida di gabbiani, che ci
accompagneranno per tutto il nostro giro della
Normandia. Si può camminare lungo un sentiero e
ammirare un panorama davvero grandioso. Le
falesie appaiono imponenti a una trentina di
chilometri più a ovest, a Dieppe, dominata da un
castello-museo, con una spiaggia molto ampia e
un grande porto. Numerose le case storiche a
graticcio. Da visitare la chiesa gotica di (ancora!)
Saint-Jacques. La dedica a questo santo è
ricorrente sulle coste normanne: forse la
devozione a san Giacomo è legata al fatto che
sulle spiagge si trova spesso la famosa
conchiglia, simbolo del pellegrinaggio a
Santiago di Compostela, che non è altro che il
guscio del mollusco bivalve
Pecten jacobaeus, o
capasanta.
Le falesie diventano sempre
più scenografiche, lungo la Costa d’Alabastro.
Tappa d’obbligo, sulla bellissima strada,
Fécamp: qui abbiamo voluto acquistare un famoso
prodotto del luogo, il Bénédectine, un liquore
d’erbe considerato una sorta di elisir
medicinale, dalla formula misteriosa, prodotto
fin dal XVI secolo dai monaci dell’Abbazia della
Santissima Trinità e poi rielaborato e
commerciato tre secoli dopo. Si tratta in realtà
solo di un amaro dal gusto piacevolmente
aromatico...
All’interno del Palais Bénédectine,
di fine ‘800, in stile neogotico-
rinascimentale, dove si compra il liquore, si
può anche visitare una bella collezione d’arte,
oppure la distilleria, fermandosi magari
nell’elegante cocktail bar. Scopriamo una
curiosa leggenda locale di origine medioevale,
secondo la quale alcune gocce del sangue di
Cristo, contenute in un tronco di fico (dove le
avrebbe collocate Giuseppe d’Arimatea) poi
trasportato dalle correnti, si sarebbero
riversate sulla spiaggia, nel I secolo d.C.
Fécamp divenne dunque un luogo di culto, meta di
fedeli. La reliquia (!) risulta conservata nel
“Tabernacle du Précieux Sang” (XVI sec.) in
marmo bianco, in una cappella dell’abbazia, che
presenta all’interno un bell’altare e pregevoli
vetrate. Certo la fantasia e la credulità non
mancavano!! Sta di fatto che la città ha sempre
attratto frotte di visitatori, e anche molti
artisti, soprattutto pittori impressionisti, che
ne hanno ritratto gli splendidi paesaggi. La
spiaggia di Fécamp, sassosa, è molto bella: non
affollata, con qualche pescatore sulla riva. In
fondo a un molo, un faro rosso circondato dai
gabbiani.
Passeggiando, abbiamo
scoperto resti delle mura di un castello,
davanti alle quali un cartellone informativo
recita: “ 1066-2016, 950° anniversario della
battaglia di Hastings: qui, Guglielmo il
Conquistatore, ancora bambino, fu presentato
come erede del duca di Normandia”. E leggiamo
ancora: “Il 13 gennaio 1035, una grande
assemblea riunì a Fécamp l’arcivescovo di Rouen,
i vescovi e i signori. Il duca di Normandia,
Roberto I detto il Magnifico, fece riconoscere
da tutti suo figlio Guglielmo, di 7 anni, come
erede”. Tale evento è importante: può essere
considerato il primo capitolo di una lunga
storia che portò Guglielmo (1027-1087), trentun
anni dopo, a combattere vittoriosamente, dopo la
morte del re inglese Edoardo il Confessore, la
famosa battaglia. Sconfisse Aroldo, un
aristocratico pretendente al trono, e divenne
quindi re d’Inghilterra. Scopriremo poi che il
tutto è mirabilmente rappresentato nello
straordinario “arazzo di Bayeux” (vedi in
seguito).
Un borgo romantico,
immortalato da Monet, e anche da Boudin,
Delacroix e Courbet, è Étretat, a circa 16 km da
Fécamp: qui le falesie mostrano forme
particolari dovute all’erosione. In particolare
è affascinante l’arco della Falaise d’Aval,
detto “Manneporte”, che sembra affondare nelle
acque della Manica come “la proboscide di un
elefante”, secondo le parole di Maupassant, che
trascorse la propria infanzia tra Dieppe ed
Étretat. Fu soggetto di numerosi dipinti di
Claude Monet, datati soprattutto 1883 e 1885: il
grande pittore trascorse infatti a Étretat
lunghi periodi, a partire dagli anni ‘60
dell’Ottocento. La passeggiata in cima alla
falesia è un po’ faticosa: si salgono gradini
fino a 110 m di altezza, sferzati dal vento, tra
voli di gabbiani; ma ne vale assolutamente la
pena. Ai piedi della scala si trovano anche dei
bunker, costruiti dai tedeschi occupanti nel
1941, per contrastare un eventuale sbarco
alleato.
La tappa successiva non
poteva che essere Le Havre, Patrimonio Mondiale
UNESCO dal 2005, sull’estuario della Senna.
Bombardata più volte e completamente distrutta,
nella Seconda Guerra Mondiale, da un attacco
aereo alleato del settembre 1944 nel quale
perirono 3000 civili, fu ricostruita secondo il
progetto particolare dell’architetto modernista
Auguste Perret tra il 1946 e il 1964. La pianta
si basa su vie ortogonali tra loro, i palazzi
sono prevalentemente parallelepipedi uniformi,
della stessa altezza. L’atmosfera complessiva è
gradevole. Ci è piaciuta molto la chiesa di
Saint-Joseph, la cui altezza (107 m) domina il
centro della città: l’interno è illuminato da
migliaia di vetri colorati attraverso i quali
filtra la luce. La grande spiaggia è invece un
po’ triste: pullula di cabine abbastanza
squallide, in un certo disordine, tra sassi ed
erbacce, e si affaccia su un porto pieno di
navi, container e gru (è il secondo porto di
Francia dopo Marsiglia). L’acqua è torbida e
poco attraente. Nei pressi si incontra un
edificio grigio all’apparenza insignificante: è
invece il Museo d’Arte Moderna André Malraux
(MUMA di Le Havre), la cui visita è imperdibile,
perché ospita una straordinaria raccolta di
opere di Eugène Boudin insieme a molte altre dei
maggiori impressionisti francesi. Ad Albert
Marquet è stata dedicata una mostra temporanea,
“Marquet in Normandia” (fino al 24 settembre
2023). Il pittore scoprì la regione nel 1903 e
ne fece subito un campo di sperimentazione delle
sue ricerche pittoriche, ispirate al fauvismo:
splendidi i quadri esposti. Un altro luogo da
vedere assolutamente è “Le Volcan”: una
gigantesca struttura bianca in cemento armato, a
forma di tronco di cono, firmata dall’architetto
brasiliano Oscar Niemeyer e inaugurata nel 1982,
al centro della grande Place du Général De
Gaulle. Ospita eventi culturali, concerti,
spettacoli cinematografici. Un’enorme mano di
bronzo si protende aperta, da un lato, e sembra
chiedere qualcosa. In realtà i “vulcani” sono
due, uno accanto all’altro: il secondo edificio
è più basso, circondato da finestrelle.
Dall’altra parte della piazza, ecco un monumento
commemorativo delle due guerre mondiali e un
vastissimo bacino d’acqua, circondato da
esercizi commerciali.
Abbiamo pernottato
all’interno, a Épaignes, nella deliziosa
campagna normanna, non trovando camere libere
sulla costa che non fossero a prezzi proibitivi.
Per superare la Senna da Le Havre siamo passati
sul Pont de Tancarville, un po’ somigliante al
Golden Gate. Avremmo preferito in realtà
scavalcare l’estuario sul famoso Pont de
Normandie, il più grande ponte sospeso d’Europa,
molto scenografico, ma seguendo il navigatore
abbiamo percorso una strada sbagliata, arrivando
all’imbarco di un piccolo traghetto, che abbiamo
evitato. Pazienza! Abbiamo poi ammirato il Pont
de Normandie da lontano. Nella graziosa
Cormeilles abbiamo cenato in uno dei migliori
ristoranti di tutto il viaggio, gustando piatti
tipici della cucina locale e formaggi davvero
squisiti, in particolare il Camembert,
accompagnati da un buon bicchiere di sidro (Le
Florida, 21 Rue de l’Abbaye).
Il giorno seguente abbiamo
iniziato l’esplorazione della Bassa Normandia,
dal paesaggio molto diverso. Le spiagge sono
sabbiose, pulite, facilmente balneabili e spesso
attrezzate; molte facciate nei centri storici
sono a graticcio, perfettamente ristrutturate;
si respira un’aria piacevole, anche se più
turistica. La nostra prima visita, sulla Côte de
Grâce, ha riguardato Honfleur, considerato uno
dei luoghi più belli della Normandia. Di notevole fascino l’antico porticciolo (Vieux
Bassin) circondato da case colorate;
passeggiarvi intorno è un vero piacere.
Interessante la chiesa di Santa Caterina (XV-XVI
sec.); da non mancare il Jardin des
Personnalités, un bel parco disseminato di teste
scolpite che ricordano diverse figure importanti
per la città e per la Francia. Tra queste, ecco
quella di Erik Satie (1866-1925): la casa natale
dello straordinario compositore e pianista,
amico di Verlaine, Picasso, Cocteau, è da
visitare assolutamente (67 Boulevard Charles V).
A Honfleur nacque anche Boudin; naturalmente gli
è stato dedicato un piccolo museo.
Purtroppo, per ragioni legate
all’impossibilità di trovare parcheggio visto
l’afflusso di turisti
–
complice una giornata di sole e cielo
azzurrissimo
–
siamo stati costretti ad attraversare
velocemente Deauville e Trouville, sulla Côte
Fleurie, senza praticamente poterci fermare. Ne
abbiamo tratto solo la fugace impressione di
cittadine balneari eleganti e ben frequentate.
Siamo dunque giunti a Caen, dove abbiamo
pernottato. Ne abbiamo un po’ trascurato il
centro storico, perché la nostra meta era il
Memoriale, che abbiamo raggiunto all’apertura,
il mattino seguente, per evitare lunghe code. Si
trova nella periferia nord la “Cité de
l’histoire pour la paix” (www.memorial-caen-fr),
inaugurata dal presidente François Mitterrand
nel giugno 1988, circondata da vasti prati e
aiuole (i “giardini del ricordo”) con lapidi
commemorative qua e là. È un edificio di
notevoli dimensioni, su tre livelli.
Arrivando
sull’Esplanade Général Eisenhower, davanti
all’ingresso, ecco numerose bandiere sventolanti
e un monumento molto significativo: la pistola
con la canna annodata, opera dell’artista
svedese Carl Fredrik Reuterswärd, bronzo
presente in tutto il mondo in una trentina di
copie, come simbolo universale della non
violenza (lo scultore ebbe l’idea del monumento
dopo l’assassinio di John Lennon, alla fine del
1980). Anche la grande scritta sulla facciata ci
accoglie, come simbolo di pace: “Il dolore mi ha
sbriciolato, la fraternità mi ha sollevato,
dalla mia ferita è sgorgato un fiume di
libertà”. La frase
–
riferita alla Normandia - è rimasta a lungo
anonima, ma pare che sia da attribuire a un
poeta di Caen, tale Paul Dorey, amico
dell’architetto progettista del Memoriale,
Jacques Millet. Entrando, il nostro viaggio nel
tempo diventa realtà: e dunque riprendiamo il
“cammino” iniziato a Verdun, questa volta
affrontando la Seconda Guerra Mondiale. La
visita dura circa tre ore ed è
interessantissima: si parte da “1918-1939, da
una guerra all’altra: il disastro”, per passare
alla “Francia degli anni bui”, alla “Guerra
totale”. Fotografie, documenti, reperti,
ricostruzioni e filmati si susseguono.
All’Italia fascista e al suo ruolo nel conflitto
è dedicato poco spazio: a parte qualche immagine
di Mussolini con Hitler, e poche testimonianze
sulla guerra d’Africa, non c’è molto altro. Una
copia di “Se questo è un uomo” di Primo Levi è
esposta in una bacheca, come testo tra i più
importanti di denuncia dell’Olocausto.
Tra i
reperti più interessanti, ecco un esemplare
della famosa macchina “Enigma M4”, a quattro
rotori, usata dai nazisti dal febbraio 1942 per
comporre e decrittare testi cifrati che venivano
trasmessi tra i sottomarini e i centri di
comando. Ma è lo sbarco degli alleati in
Normandia, il 6 giugno 1944, a dominare la
scena: al D-day (che i francesi chiamano “Jour
J”; noi dovremmo chiamarlo “Giorno G”!) è
dedicata un’ampia sala; si passa poi in un
cinema dove si proietta, ogni 30 minuti, il film
“Le Jour J et la Bataille de Normandie”. Un
settore del memoriale è dedicato alla “Guerra
fredda”; e si può concludere con un film
“immersivo”, a 360°, che riassume la storia
d’Europa dal 1914 al 1991. All’uscita, si ha
l’impressione di essere entrati fisicamente
nelle pagine di un libro di storia!
Da Caen ci siamo spostati, in
neppure mezz’ora di strada, a
Courseulles-sur-Mer, la cui spiaggia è “Juno
Beach”, una delle cinque utilizzate per lo
sbarco; qui approdarono le truppe canadesi, che
due anni prima, il 19 agosto 1942, avevano
subìto forti perdite dopo un tentativo fallito
d’invasione a Dieppe. Il nome in codice “Juno”
fu scelto in quanto corrispondeva a quello della
moglie di un tenente colonnello, un certo Dawnay
(inizialmente doveva essere “Jelly”, medusa, ma
evidentemente non piacque). La bandiera canadese
sventola accanto a quella francese; nei pressi
di un molo è stata eretta un’alta croce, e vi è
anche un piccolo centro di visita,
dall’architettura interessante. Ben 381 soldati
canadesi perirono nel D-day; 5500 nella
Battaglia di Normandia, 45000 complessivamente
nella II Guerra Mondiale. Si può percorrere un
sentiero commemorativo, con cartelloni
esplicativi, lapidi, resti di bunker, a ridosso
della bella spiaggia, che presenta dune e
vegetazione sparsa. Juno Beach è in mezzo a
“Sword” e “Gold”, le spiagge dello sbarco
britannico, dal nome di pesci (pesce spada e
pesce rosso!), che però non abbiamo visitato.
La tappa a Bayeux, distante
circa 20 km, ci ha permesso un’altra
esplorazione storica, davvero eccezionale: mi
riferisco al già citato arazzo (vedi più sopra,
Fécamp), detto “Arazzo della regina Matilde”,
costituito da nove pezze unite e lungo
complessivamente circa 70 metri, tessuto nel
1077 da artisti ignoti (in realtà si tratta di
un incredibile ricamo di fili di lana verde
scuro, bordeaux, grigio, giallo oro e nero, su
tela di lino). Non si sa neppure se chi l’ha
ricamato fosse inglese o normanno: di certo
vuole essere una sorta di documento a
testimonianza della validità del dominio
normanno in Inghilterra. Viene conservato nel
museo della Tapisserie de Bayeux (13B Rue de
Nesmond), perfettamente illuminato, sotto la
copertura di un vetro protettivo. I visitatori
vi camminano lentamente davanti, affascinati,
fianco a fianco, in una specie di buia galleria.
È un grandioso poema epico, una sorta di
straordinario “fumetto” dell’XI secolo, che
racconta le vicende di Aroldo e di Guglielmo il
Conquistatore, legate alla successione al trono
di Edoardo e alla conquista dell’Inghilterra da
parte del duca di Normandia. Le scritte sono in
latino medioevale; ma la visita si svolge con
l’ausilio di un apparecchio audio multilingue
(anche in italiano) che illustra via via le
scene, quindi ci si può immergere con stupore e
ammirazione nella storia narrata. La battaglia
di Hastings del 1066 è riportata con crudo
realismo: i cavalli, spesso imbizzarriti o
feriti a morte, si mescolano ai cavalieri che
combattono con spade, mazze e frecce. Manca una
pezza finale, andata perduta, che probabilmente
rappresentava l’incoronazione di Guglielmo.
L’UNESCO ha inserito l’arazzo nel Registro della
Memoria del Mondo: è in effetti un “memoriale”
di mille anni fa!
Bayeux è una delle città
meglio conservate, poco danneggiata dai
bombardamenti: presenta antiche case a graticcio
e una stupenda cattedrale, quella di Notre Dame,
in stile gotico-normanno, che fu consacrata
proprio nel 1077 in presenza di Guglielmo; qui
fu conservato per secoli il meraviglioso arazzo,
che veniva periodicamente esposto.
Ci siamo dunque spostati
nuovamente sulla costa per andare su un’altra
“spiaggia dello sbarco”: Omaha Beach,
catapultandoci ancora nel cuore tragico del XX
secolo.
Qui, tra Saint-Laurent-sur-mer,
Vierville e Colleville-sur-mer, il 6 giugno 1944
approdarono alle 6.30 del mattino circa 60.000
militari statunitensi del V corpo d’armata (e
più a ovest, a Utah Beach, altri 20.000
soldati), in un’operazione che coinvolgeva una
moltitudine di aerei, paracadutisti,
cacciatorpedinieri, mezzi corazzati, truppe
d’assalto. La spiaggia è ampia e sabbiosa,
tranquilla, frequentata da bagnanti, che nuotano
in acque pulite (e abbastanza calde, nonostante
l’oceano e la latitudine): è difficile
immaginare l’orrore dello scontro sanguinoso,
tra scoppi di granate, colpi di mitragliatrice e
cannonate, che vi avvenne quasi ottant’anni fa
tra le forze contrapposte. I ragazzi morti,
fatti letteralmente a pezzi, furono diverse
migliaia; estesi cimiteri militari costellano la
zona.
Il nostro viaggio nella
storia è proseguito quindi lungo la penisola del
Cotentin, fino a Cherbourg, che si trova in
prossimità della punta. Non è una città che ci
abbia particolarmente colpito: ha un porto
interessante, sul quale si trovano concentrati
locali e ristoranti (in particolare davanti
all’”avant port”, intorno al Quai de Caligny) ma
non abbiamo notato monumenti di particolare
rilievo. Abbiamo trascurato la visita alla Cité
de la Mer (molto gettonata dai francesi) e al
Musée de la Liberation, che forse avremmo
considerato se avessimo avuto più tempo. Una
nota curiosa: qui fu girato un film musicale,
“Les parapluies de Cherbourg” (1963) con
Catherine Deneuve e Nino Castelnuovo.
All’epoca
ebbe un certo successo (vinse anche il festival
di Cannes) e il titolo del film divenne una
sorta di marchio di lusso per ombrelli di
qualità, prodotti alla Manufacture, che oggi
costano dai 150 euro in su: souvenirs
decisamente un po’ troppo cari...
[Hotel, prenotati tramite
Booking:
a Dieppe, Brit Hotel Dieppe,
3 Rue Jacques Monod
a Fécamp, Hotel Ibis Budget
Fécamp, Boulevard Suzanne Clément
a Épaignes, Hotel Le Tosny, 1
Route des Anglais
Caen, Hotel Crocus Caen
Memorial, 2 Rue de la Folie, Point du
Débarquement
a Cherbourg, Brit Hotel
Cherbourg, 12 Rue Joliot Curie]
15 settembre 2023, Anna Busca
UN
VIAGGIO NELLA STORIA
(terza parte: da Cherbourg a
Metz)
Lasciata Cherbourg, scendendo
lungo la costa occidentale della penisola del
Cotentin, abbiamo sostato a Carteret, per vedere
se era possibile un’escursione giornaliera
all’isola di Jersey, a un’ora di traghetto. Il
luogo era piuttosto desolato: e alla stazione
marittima, piuttosto squallida e assolutamente
deserta, ci è stato detto dall’unica impiegata
che i collegamenti settimanali erano solo tre e
avremmo dovuto aspettare quattro giorni per
imbarcarci... Evidentemente l’isola, noto
paradiso fiscale britannico, non è un grande
richiamo turistico per i francesi! Abbiamo
quindi cambiato programma, riprendendo la nostra
discesa della penisola e fermandoci a Coutances,
un po’ all’interno. Un’altra splendida
cattedrale (XIII-XIV sec.), con un organo
maestoso, meritava senz’altro la nostra visita.
Tornando sulla costa, eccoci
a Granville: il paese è molto bello, in parte
arroccato su una scogliera, con antiche case di
granito. Abbiamo fatto una splendida passeggiata
partendo dal faro, sulla sommità di Pointe de
Roc, dove si trovano anche resti di bunker e
fortini costruiti dai tedeschi nel 1942, perché
lo utilizzavano come sito difensivo strategico.
Panorami mozzafiato su acque blu zaffiro,
circondati dai gabbiani, riscaldati dal sole e
rinfrescati dal vento salmastro: e la Normandia
ci è entrata definitivamente nel cuore...
Un monumento in bronzo dominante il porto, che
raffigura un corsaro con una gamba di legno e
una lunga spada, ricorda un concittadino
illustre: Georges René Le Peley de
Pléville,(1726-1805), dalla vita in mare
estremamente avventurosa, segnata da episodi di
coraggio e vero eroismo; imbarcatosi a soli 12
anni come mozzo, combatté contro gli inglesi,
divenne Ministro della Marina, viceammiraglio e
senatore in epoca napoleonica. Da Granville
partono anche mini-crociere per l’arcipelago
delle isole Chausey e la Baia del Mont
Saint-Michel; qui le maree raggiungono
dislivelli fino a 14 m. Sarà un’esperienza per
un prossimo viaggio!
Riprendendo la strada verso
est, abbiamo deciso di dare un’occhiata a
Lisieux, considerato il secondo centro del
dipartimento del Calvados per ordine
d’importanza, dopo Caen. In realtà finisce per
essere una specie di Lourdes della Normandia:
nel 1937 fu qui inaugurata, da colui che sarebbe
stato poi papa Pio XII, un’enorme basilica in
stile neoromanico-neobizantino, meta di
pellegrinaggi.
Posta su una collina, circondata
dal verde, è dedicata a Thérèse Martin, che fu
qui monaca carmelitana, come le sue quattro
sorelle (!), e morì a ventiquattro anni di
tubercolosi, nel 1897; canonizzata nel 1925, è
nota come santa Teresa del Bambin Gesù. Anche i
suoi genitori -sepolti nella basilica inferiore
- furono fatti santi, e naturalmente pure alcune
delle sue sorelle. La visita del santuario resta
comunque interessante dal punto di vista
turistico: certo all’epoca furono spese somme di
denaro non indifferenti per i mosaici dorati, le
vetrate, le alte colonne, le cappelle e gli
altari!
Dopo circa un centinaio di km
in autostrada, abbiamo raggiunto Rouen, città
splendida, considerata a ragione la capitale
della Normandia, attraversata dalla Senna. Già
alla sera, cercando un locale per cenare,
abbiamo potuto fare un bel giro a piedi del
centro storico, assistendo a uno spettacolo
“suoni e luci” sulla facciata della magnifica
cattedrale di Notre Dame, di cui Monet fece ben
trentun dipinti considerati suoi capolavori. Ma
è il giorno seguente che siamo riusciti a
compiere un’interessantissima visita della
città. Dopo una bella passeggiata sul
LungoSenna, attraversando il ponte Boieldieu,
abbiamo trovato, sulla riva destra, una lapide:
“Nei pressi di questo luogo, il mercoledì 30
maggio 1431, dopo il supplizio del Mercato
Vecchio, le ceneri di Giovanna d’Arco furono
gettate nella Senna dall’alto dell’antico ponte
Matilde”. Eccoci dunque di nuovo a incontrare
l’eroina di Francia, che avevamo incrociato a
Vaucouleurs, quasi all’inizio del nostro
viaggio. Siamo infatti nella città che la vide
bruciare sul rogo, appena diciannovenne, a
seguito di un processo per eresia tenuto
dall’Inquisizione iniziato nel gennaio 1431;
Jeanne d’Arc era stata catturata sette mesi
prima a Compiègne, da Jean de Luxembourg, che
poi l’aveva venduta agli inglesi in cambio di un
ingente riscatto.
Dove fu approntata la catasta
di legna per l’esecuzione della Pulzella, ossia
la Place du Vieux Marché, circondata da belle
case a graticcio, sorgono una chiesa moderna in
cemento armato a lei dedicata
–
all’interno
splendide vetrate cinquecentesche e parecchie
sculture - e un’alta
croce, inaugurata nel 1979 dal presidente Valery
Giscard d’Estaing
sul punto esatto del rogo. Si può immaginare
qui, rivivendo quell’orrore, la giovanissima
Jeanne d’Arc vestita di una tonaca bianca
–
come nel dipinto di Fragonard
“Jeanne
d’Arc
sur le bûcher” del 1822, visto al Musée des
Beaux-Arts - gridare più volte, avvolta dalle
fiamme: “Jesus!”, come raccontano le cronache
dell’epoca. Il processo fu annullato nel 1456 da
papa Callisto III, ma fu solo nel 1909 che
iniziò un processo di beatificazione che portò
papa Benedetto XV a dichiararla santa, nel 1920,
in virtù di “guarigioni miracolose” per sua
“intercessione”.
Dopo la visita della
cattedrale di Notre-Dame,
una vera immersione
nel gotico francese più bello, abbiamo raggiunto
l’abbazia di Saint-Ouen (XVII-XVIII sec.), più
volte ricostruita, con uno splendido organo, e
la chiesa di Saint-Maclou; camminando nelle vie
del centro storico ci siamo imbattuti nel Gros
Horloge, struttura del ‘500 incastonata tra le
case, che porta due grandi, magnifici orologi,
in un bel Palais de Justice e nella casa natale
del geniale drammaturgo Pierre Corneille
(1606-1684). Il Musée des Beaux-Arts ha
collezioni ricchissime, del Medioevo, del
Rinascimento, del ‘600, ‘700 e ‘800; anche solo
una sintesi di artisti e opere da segnalare
richiederebbe un lungo elenco! Naturalmente è
esposta una delle “Cattedrali di Rouen” di
Monet.
Da Rouen ci siamo poi diretti
verso est: prima tappa, Beauvais. La nostra meta
era, naturalmente, la sua cattedrale gotica,
dedicata a San Pietro: vanta il coro gotico più
alto della Piccardia, di 47 m., superando quello
di 42,5 m di Amiens e di 34 m di Saint-Quentin.
Costruita a partire dal 1225, rimase però
incompiuta: ha problemi di staticità, visto che
ha subìto nel corso dei secoli alcuni crolli,
forse in parte dovuti al terreno instabile su
cui poggiano le fondamenta. Richiede frequenti
interventi di ristrutturazione e consolidamento.
Per quanto delicata, è una costruzione maestosa.
All’interno, le colonne sono sorrette da travi
orizzontali di sostegno. Si può ammirare un
grande orologio astronomico.
In una vasta piazza
contornata da edifici storici si può ammirare il
monumento dedicato a un’altra Jeanne: si tratta
di Jeanne Hachette (ma il suo vero cognome era
Fourquet o Laisné), eroina che, armata di
accetta (“hachette”) uccise un soldato nemico
che stava per scalare le mura della città,
durante l’assedio del giugno 1472 da parte delle
truppe del duca di Borgogna. Il gesto diede
forza alla popolazione, che resistette
all’assedio finché, un mese dopo, il duca si
ritirò. Evidentemente il nome “Jeanne” era
portato, all’epoca, da donne aventi un coraggio
non comune! L’ultima visita di Beauvais ha
riguardato l’ex Palazzo Vescovile, diventato il
Museo dell’Oise; ospita alcuni dipinti e
oggetti.
Abbiamo pernottato a
Compiègne, in un albergo sul fiume Aisne, che
qui si unisce all’Oise (per poi diventare
affluente della Senna). La città, di circa
40.000 abitanti, ha una storia lunga e
complessa: antico nucleo gallo-romano, in una
zona strategica, luogo di contese e battaglie,
ha vissuto episodi come la cattura di Jeanne
d’Arc il 23 maggio 1430 e l’incontro tra Luigi
XVI e l’austriaca Maria Antonietta nel maggio
1770, pochi giorni prima delle loro nozze,
decise per ragioni di alleanza; qui, nel
meraviglioso castello, trascorsero molti mesi
sia Napoleone che Napoleone III; e, per venire a
tempi più recenti, Compiègne è stata sede di due
importantissimi armistizi, nel 1918 e nel 1940.
La visita agli appartamenti
del castello, fatto costruire nel XVIII secolo
da Luigi XV, in forme neoclassiche, poi
distrutto nel corso della Rivoluzione francese e
restaurato da Napoleone in stile primo impero, è
imperdibile. Le sale sono magnificamente
decorate, da tappezzerie, tendaggi, mobili,
tappeti, quadri e sculture di grande
raffinatezza; solo qualche pezzo è originale,
essendo stato disperso l’arredo nel 1795. Qui
Napoleone III e la consorte Eugenia
organizzavano feste grandiose con centinaia di
invitati: duravano anche sei settimane, durante
le quali si susseguivano balli, concerti,
spettacoli teatrali, giochi d’acqua, cene
luculliane, battute di caccia nella foresta.
Il castello ospita anche un museo dell’automobile
(Musée National de la Voiture), che però non
abbiamo visitato, e il Museo dell’Imperatrice,
dove sono raccolti oggetti e testimonianze della
vita di Eugenia. Fotografie e dipinti riguardano
in particolar modo il figlio, il principe
Napoléon Eugène Louis (detto Loulou), nato il 16
marzo 1856 ed erede al trono, che non ebbe mai.
Dopo l’esilio in Inghilterra nel 1871, a seguito
della sconfitta di Sedan contro la Prussia, e la
morte del marito nel 1873, l’imperatrice dovette
affrontare il dolore della perdita del figlio,
al quale era legatissima, ucciso in Sudafrica
nel 1879 durante la guerra anglo-zulu cui
partecipava. Un bel dipinto di Paul Jamin, “Mort
du Prince impèrial au Zoulouland- 1er juin 1879”
rappresenta la scena drammatica dell’attacco al
principe, disarcionato e circondato dai
guerrieri Zulu. In una bacheca è anche
conservata la sua vecchia valigia, insieme a una
rubrica che porta in copertina, a lettere
dorate, la scritta “Where is it?”
Il parco, con prati immensi,
aiuole fiorite, statue, alberi secolari, è
bellissimo ed estremamente curato, quasi in
continuità con la foresta circostante, che
abbiamo poi raggiunto
–
in auto, con un tragitto di pochi minuti
–
per visitare i luoghi degli armistizi già
citati, piuttosto isolati. Si arriva a un
parcheggio da cui si raggiunge, nel fitto bosco,
la Clairière, ossia la radura dove si trovava il
famoso vagone ferroviario che ospitò i firmatari
dell’armistizio dell’11 novembre 1918 tra
Francia (e i suoi alleati) e la Germania; e il
22 giugno 1940 Hitler volle, per rivalsa, che si
firmasse l’armistizio tra Francia e terzo Reich
nello stesso luogo, e nello stesso vagone (che
fu fatto uscire dal Memoriale in cui si trovava
e riportato qui per lo scopo). Una roccia piatta
con le scritte incise “Le Maréchal Foch” e “Les
plénipotentiares allemands” segna in mezzo
all’erba, tra i resti delle rotaie, la posizione
originaria del vagone.
Nei pressi, la statua del
maresciallo Foch, comandante in capo delle
truppe francesi, e quella commemorativa dei
caduti della I Guerra Mondiale. Si entra quindi
nel piccolo Musée Mémorial de l’Armistice, che
presenta, in 500 m2 di esposizione, immagini,
reperti e brevi video che spiegano molto bene
tutta la vicenda. Il vagone
–
qui vi è una sua copia esatta, ricostruita con
precisione–
era originariamente una carrozza ristorante che
apparteneva a treni che collegavano la stazione
di Montparnasse, a Parigi, con la Bretagna; fu
fatta produrre nel 1913 dalla Compagnia
internazionale dei vagoni-letto. La scelta della
radura di Compiègne per l’armistizio del 1918 fu
voluta dal maresciallo Foch per evitare la
presenza di politici, giornalisti e curiosi; al
contempo, era meglio che la delegazione tedesca
restasse riparata in un luogo isolato, in modo
che non fosse attaccata da manifestazioni
pubbliche. Non essendosi edifici, fu utilizzato
il vagone che vi era stato portato, allestito
opportunamente come un ufficio, con un tavolo e
otto sedie per i membri della delegazione. L’armistizio segnava di fatto la fine della
guerra, anche se il trattato di pace fu firmato
solo l’anno successivo, a Versailles. Foch fu
lungimirante, perché affermò che, viste le
pesanti condizioni imposte alla Germania, non si
trattava di una vera pace, ma solo di una
tregua. Ventidue anni dopo, Hitler, il 21 giugno
1940, entrando nel vagone, prese il posto di
Foch: cancellava così, simbolicamente, la
sconfitta precedente, e occupava la posizione
del vincitore. L’armistizio era stato chiesto
dal generale francese Philippe Pétain
–
responsabile del fronte francese nella battaglia
di Verdun del 1916 - che divenne poi capo del
governo collaborazionista di Vichy, dal 1940
fino al 1944 (fu poi processato nel 1945 per
alto tradimento ed ebbe la condanna a morte
commutata nel carcere a vita). Hitler non
pronunciò parola; il generale Keitel lesse il
programma della convenzione per l’armistizio, e
dopo la lettura il Führer lasciò il vagone. Non
assistette quindi ai negoziati, che furono
siglati il giorno seguente. La carrozza fu
portata poi a Berlino; la sua distruzione
avvenne in circostanze oscure, in Turingia, non
si sa se nel corso di bombardamenti alleati o
perché fatta saltare dai nazisti, nel 1945.
Ripresa la strada, ormai
lungo la via del ritorno, non potevamo non far
sosta a Metz (pronuncia francese: Mess). Il
nostro hotel era affacciato sulla stazione
ferroviaria, la Gare de Metz-Ville, considerata
monumento storico e più volte eletta come
stazione più bella di Francia.
Costruita nel
1908, sotto l’amministrazione tedesca, dalla
Direzione imperiale delle Ferrovie di
Alsazia-Lorena, si basava sul progetto, in stile
neo-romanico, dell’architetto Jürgen Kröger. In
effetti, sia guardandola dall’esterno che
entrando, si è consapevoli dell’origine
dell’edificio: massiccio, razionale, con un’alta
torre con orologi, che sembra un possente
campanile e fa assomigliare il tutto a una
costruzione quasi religiosa. Dalla stazione si
esce su Place Charles de Gaulle: al centro della
piazza una statua, in posa quasi di oratore,
ricorda il famoso generale, che si era opposto a
Pétain rifiutando l’armistizio del 1940; fu
Presidente della Quinta Repubblica francese dal
1959 fino alla morte, nel 1969. Passeggiando per
le belle vie del centro, spesso alberate, si
notano numerosi palazzi dalle facciate
monumentali: sono sia edifici residenziali, di
grande eleganza, che pubblici, come quello delle
Poste. La cattedrale gotica di Santo Stefano è
bellissima, le volte della navata centrale
raggiungono i 42 m di altezza. Le vetrate hanno
una superficie complessiva di 6500 m2, la più
grande d’Europa.
Scopriamo che il pittore Marc
Chagall (1887-1985) è l’autore di alcune vetrate
stupende: due finestre dell’abside riportano
episodi della vita di Mosè (il nome ebraico di
Chagall era proprio Moishe). Attraversiamo un
ponte antico sulla Mosella, che proprio a Metz
si unisce con il Seille, per gettarsi poi nel
Reno a Koblenz, in Germania, ed entriamo in
Place de la Comédie, un piacevolissimo giardino
con fontane e fiori a profusione, proprio di
fronte al Teatro dell’Opera del XVIII sec. Il
cartellone ci sorprende piacevolmente: a ottobre
la stagione è inaugurata dalla Bohème di
Puccini, seguita da “C’est comme ça (si vous
voulez)”, ossia “Così è (se vi pare)” di Luigi
Pirandello. Il teatro e altri edifici storici,
come la Prefettura, si trovano su un’isola
fluviale. Sempre camminando passiamo davanti a
un edificio, al numero 2 di Rue Haute Pierre:
una lapide ci informa che qui, il 30 marzo 1844,
nacque Paul Verlaine. Ci sembra quasi di
“chiudere un cerchio”: dalla città natale di
Rimbaud a quella di Verlaine! Un’altra lapide, a
breve distanza, riporta invece le parole di
Winston Churchill pronunciate a Metz il 14
luglio 1946: “Occorre che l’Europa, la futura
Europa, prenda il primo posto nei nostri
pensieri. Allora, in Europa, noi conquisteremo
la pace.” Forse dovremmo, tutti quanti noi
europei, fare nostro l’auspicio di Churchill...
Prima di ripartire abbiamo
dedicato due ore a un museo straordinario: il
Cèntre Pompidou-Metz, del 2010,
architettonicamente molto singolare, in quanto
chi lo progettò, ossia il giapponese Shigenu Ban
insieme al francese Jean de Gastines, immaginò
una copertura simile a un bianco copricapo
cinese. Come gli altri musei omonimi è un centro
di arte moderna e contemporanea, con mostre
temporanee e attività pluridisciplinari dedicate
soprattutto a bambini e ragazzi. Numerose le
installazioni interessanti: un notevole spazio è
dato a Maurizio Cattelan. Siamo riusciti ad
ammirare i dipinti di una pittrice
straordinaria, Suzanne Valadon (1865-1938),
raccolti in un’affascinante esposizione (fino
all’11 settembre 2023). La vita di questa
artista
–
il cui vero nome era Marie-Clémentine - fu
incredibile: da modella (e spesso amante) di
pittori quali Renoir, Toulouse-Lautrec,
Zandomeneghi, e madre appena diciottenne di
colui che diventerà Maurice Utrillo, a pittrice
lei stessa, dallo stile che riprende, in modo
personale e fondato sul realismo, soprattutto
quello di Gauguin.
Splendida la galleria di
ritratti, tra cui spicca quello del giovane Erik
Satie- già “incontrato” a Honfleur! - con cui
ebbe una relazione di alcuni mesi, dal 1893.
L’anno seguente, la Valadon fu la prima donna ad
essere ammessa nella Société Nationale des Beaux
Arts. Speriamo che la mostra venga portata
presto a Milano! Avrebbe un successo strepitoso
e meritatissimo.
Ripresa quindi la strada
verso est, ci siamo fermati a Saint-Avold per
fare rifornimento, scoprendo casualmente che qui
si trova il più grande cimitero militare
americano d’Europa. Visitarlo ci è parso
d’obbligo, per chiudere, in un certo senso, un
altro percorso ad anello, a conclusione del
nostro viaggio nella storia. Ed eccoci quindi,
unici visitatori, in un parco-camposanto
dall’erba perfettamente rasata, gelidamente
silenzioso e angosciante. Davanti a quasi 11000
croci bianche sventola alta la bandiera a stelle
e strisce. In un edificio presso l’entrata
alcune lapidi ricordano gli sbarchi del 6 giugno
1944 e le operazioni belliche che ne seguirono,
in Europa occidentale, fino all’8 maggio 1945,
giorno in cui fu firmato l’atto di resa della
Germania.
Su una parete è riportata una frase
del presidente Eisenhower, che commemora i
caduti e conclude “Sono morti per una causa che
vivrà”. Forse sarebbe stato meglio incidere
versi della poesia “Le mal” di Rimbaud: “Tandis
qu’une folie èpouvantable broie Et fait de cent
milliers d’hommes un tas fumant; Pauvres morts!
Dans l’été, dans l’herbe, dans ta joie, Nature!”
(“Mentre un’orrenda follia massacra centomila
uomini in un mucchio fumante; Poveri morti!
Nell’estate, nell’erba, nella tua gioia, Natura!”).
[Hotel, prenotati tramite
Booking:
a Rouen, Ibis Rouen Centre
Rive Gauche Mermoz, 13 Rue de la Motte
a Compiègne, Hotel de Flandre,
16 Quai de la République
a Metz, Campanile Metz-Centre
Gare, 30 Rue aux Arènes
a Mulhouse, Hotel Le
Strasbourg, 17 Avenue de Colmar
15 Settembre 2023, Anna Busca
AGOSTO 2023
L'Irlanda del sud in
(soli) 8 giorni
Questa volta ho voluto
provare il brivido del viaggio organizzato in
Europa. Finora ho viaggiato in questa maniera
solo in paesi esotici; in Europa sempre in modo
autonomo, a parte alcune crociere fluviali.
Quando vedevo i pullman scaricar frotte di
pensionati, pensavo che non avrei mai viaggiato
a quel modo. E invece adesso, con un po' di
capelli bianchi in testa e qualche giuntura
dolorante, penso che dopotutto la cosa ha i suoi
vantaggi, specie sotto ferragosto: niente stress
a cercar alberghi, a cercar un buco per
parcheggiare (e trovarlo se va bene lontano
chilometri), a far code alle biglietterie, a
guidare la sera dopo giornate faticose, eccetera.
Qui poi bisogna aggiungere la guida a sinistra:
l'ho già sperimentata in Scozia, ma allora
eravamo in tre a darci il cambio al volante ed
erano giusto quei trent'anni fa. Gli svantaggi
sono che devi accettare una disciplina
necessaria a convivere con altri, ed un
itinerario che non sempre passa dove vorresti tu.
E poi c'è la durata. A voler
vedere tutta l'Irlanda ci va un mese. Con una
sola settimana i tagli sono inevitabili; ed i
tagli sono soggettivi. A me ad esempio piacciono
di più città, paesini e paesaggi di campagna;
meno quelli marini e le scogliere, che invece
sono generalmente più gettonati.
Pur accettando il pacchetto,
è stato un peccato aver escluso Cork e Limerick.
I villaggi rifatti di Bunratty Folk Park e Kerry
Bog per contro si sono rivelati interessanti sì,
ma un po' “disneyani” perché sono ricostruiti,
pur se con pezzi originali. Per fortuna non sono
arrivati a farvi circolare gente in costume
d'epoca come visto in villaggi del genere negli
USA.
Una scoperta inaspettata,
fatta sul posto, è che si poteva visitare anche
l'Irlanda del nord: avevamo escluso i viaggi
combinati Eire + Ulster per i tempi biblici di
rinnovo del passaporto. Invece il problema c'è
solo se si arriva nel nord con un volo diretto,
o dall'Inghilterra. Dall'Eire invece non ci sono
controlli di frontiera.
Oggi la convivenza fra le due
componenti cattolico-indipendentista e
protestante-filobritannica non è più così
problematica come anni fa, ma la situazione non
è risolta e nel nord ancora se le danno. Nel sud
i protestanti sono pochi e la situazione in
genere è tranquilla. Ma dappertutto ci si trova
circondati da reminiscenze della lotta per
l'indipendenza, ed il sentimento anti-inglese è
forte. Molti nomi inglesi sono stati cambiati, i
cartelli sono sempre bilingui, la colonna di
Nelson a Dublino è stata abbattuta nel '66 e da
tempo è stato adottato il sistema metrico
decimale; e ovviamente non dimentichiamo
l'ingresso nella UE (ma non nell'area Schengen,
come si scopre all'aeroporto) e l'uso dell'Euro.
Per ragioni facili a capirsi rimane invece la
guida a sinistra. Altra memoria inglese
mantenuta sono gli autobus a due piani, che si
vedono dappertutto, anche nei paesi. E per
fortuna ne hanno mantenuto la lingua, perché
quella gaelica è perfettamente incomprensibile.
L'organizzazione Boscolo è
stata efficiente ed i partecipanti sempre
puntuali ai vari appuntamenti; non ci sono stati
intralci al programma. Un plauso particolare
alla guida Niccolò Magro, che si è fatto in
quattro per tenere il gruppo e accontentare
tutti, facendosi benvolere. Durante i viaggi
l'abbiamo visto passare ore al telefono a
preparar visite o a cercar di sistemare 31
persone nei pub più caratteristici sotto
ferragosto, impresa titanica e un paio di volte
non riuscita, ma comunque quando era del tutto
impossibile.
Come sempre, non descriverò
qui i tesori d'arte: questo è compito delle
guide; dirò solo delle impressioni e delle
curiosità che mi hanno colpito.
Cominciamo con Dublino,
inevitabile inizio e fine del viaggio per la
presenza dell'aeroporto internazionale.
Arriviamo all'una e subito troviamo la navetta
per l'albergo. Pomeriggio libero, intanto che
gli altri componenti del gruppo arrivano man
mano, in momenti diversi secondo gli aerei: c'è
tempo perciò di farsi un'idea sommaria della
città. La vista comincia l'indomani con l'inizio
del viaggio vero e proprio.
La città è carina ma non
spettacolare. Ci sono naturalmente le attrattive
storiche e artistiche: cattedrali e chiese
minori, palazzi, musei e quant'altro. Ma più che
dedicarsi a queste è bene respirare un po'
l'aria locale ed inoltrarsi nei quartieri
tipici, anche se sono proprio questi a correre i
maggiori rischi di globalizzazione.
Cominciamo quindi con la
visita “culturale” della città, con una guida
locale che parla italiano, a partire dalla
cattedrale di S. Patrizio.
Segue un giro in pullman per i vari quartieri: a
nord del fiume la O'Connell street, con tutti i
ricordi dell'insurrezione del 1916 e della
guerra civile del '22 (la strada è dedicata al
leader dell'indipendenza); più ad est i Docks,
ormai convertiti come a Londra, a Genova e in
tutte le città portuali, in spazi pubblici,
esposizioni o come qui in uffici delle società
oggi più in voga. Riprendiamo i quartieri
storici, a sud del fiume, fermandoci allo strano
monumento (moderno) di Oscar Wilde, che presenta
due espressioni diverse secondo da dove lo si
guarda;
di fronte, una statuetta raffigura la
moglie, sposata per salvar la faccia, in un
atteggiamento triste. Passiamo poi a visitare il
Trinity College,ed
essenzialmente l'imponente libreria, dove stanno
rivoluzionando la disposizione dei libri: per
questo gli scaffali sono per lo più vuoti. La
mattinata si conclude al
Phoenix park, grande
polmone verde, con pranzo presso il piccolo
castello di Ashtown: luogo bucolico, con un
bell'orto botanico annesso e strani alberi dal
tronco multiplo; peccato
che la caffetteria sia inadatta ai gruppi causa
il poco spazio al bancone: la coda si è dovuta
sviluppare nel cortile, e in quel momento
pioveva. Ed è l'unico posto in zona per
mangiare.
Nel pomeriggio -libero- ci
diamo al colore locale ed eccoci nel Temple
Bar, ricco di locali caratteristici, in
un'atmosfera colorita e festosa.
Eppure a sera veniamo a sapere che la polizia
mandava via i turisti. Pare che la Guinness,
scorrendo in libertà, cominciasse a fare il
suo lavoro: gli animi si stavano riscaldando e
l'atmosfera cominciava a farsi un po' tanto
irlandese.
La cena è libera e si decide
di tentare tutti assieme il pub più antico della
città; ma trovar posto per 31 sotto ferragosto è
un'impresa sovrumana, e rimediamo col pub di
fronte, comunque caratteristico. Poi, un'ultima
passeggiata nei quartieri a nord per vedere da
vicino i segni, ancora conservati in O'Connell
street, delle sparatorie del 1916. Un piccolo
inconveniente al ritorno: una parte del gruppo
si perde nella folla del Temple Bar, e il bravo
Niccolò ha il suo bel daffare a raccattarli
tutti. Intanto che lui rimane sul posto a
telefonare e cercare, noialtri, d'accordo con
lui, rientriamo in albergo per conto nostro.
Lasciamo Dublino per passare
sulla costa opposta. Subito una campagna
verdissima, che fa onore al colore nazionale.
Come in quella inglese i campi son per lo più
pascoli verde-chiaro, bordati da filari di siepi
o altra vegetazione più scura, e popolati di
mucche e pecore, che ci perseguiteranno per
tutto il viaggio. Le prime soprattutto nelle
zone interne, le seconde più numerose sul mare.
Come in tutto il nord Europa sono libere, e non
chiuse in stalla come da noi. Più avanti nel
paesaggio cominciano a comparire vaste torbiere,
che si vedranno ancora spesso nelle pianure,
rappresentando una curiosa alternativa ai
pascoli.
Ci fermiamo a visitare il
Clonmacnoise, la più
grande città monastica
irlandese, distrutta dagli Inglesi -tanto per
cambiare- secoli fa: un grande spazio verde
popolato di ruderi di chiese, torri rotonde con
uno strano tettuccio a punta, e una quantità
incredibile di tombe con lapidi e croci d'ogni
sorta, il tutto in una posizione agreste lungo
il fiume Shannon.
Mangiamo a poca distanza; il ristorante è
ricavato in una fortezza a guardia del ponte sul
fiume.
Galway, la nostra meta, è
una città portuale. Una curiosità è il fiume
Corrib, che appare impetuoso: strano, per
un fiume che si butta in mare; siamo abituati a
vedere i fiumi sfociare senza fretta, arrivando
al mare in piano. Questo arriva invece in
sensibile discesa, e la corrente è perciò
violenta. A primavera danno spettacolo
i salmoni. La città ha un vivace quartiere
latino, reminiscenza dei commerci con la Spagna
prima che arrivasse Cromwell, l'inglese cattivo
di turno, a spaccar tutto. Ci sono locali
tipici, mercatini e ristoranti.
L'albergo è un po' lontano
dal centro, e questo non era ben chiaro sul
programma. La prima sera siamo stati portati in
città per la cena in un locale tipico, un posto
strano e pittoresco, con una quantità di scale e
scalette per guadagnare la saletta riservata; ma
la seconda non c'era disponibile il pullman
(l'autista aveva sforato le ore regolamentari) e
chi voleva andare in città ha dovuto scarpinare
o pagarsi il taxi.
L'escursione successiva ci
porta sul Connemara, regione costiera con
panorami grandiosi.
Si passa per Cong,
celebre per esser stato il principale scenario
del film Un uomo tranquillo; c'è anche il
monumento con John Wayne e Maureen O'Hara e non
manca il museo apposito. È un villaggio
delizioso, con fiumicello, in mezzo al verde,
uno dei posti dove mi sarebbe piaciuto fermarmi
in un viaggio libero. Ma il pacchetto non
prevede soste qui.
Dovunque i prati sono
punteggiati di pecore al
pascolo, anche a grande
altezza sui monti. Oppure di mucche,
generalmente in campi separati, qui delimitati
da muretti. Sulle strade ogni tanto
s'incontrano, come già visto in Scozia, le
griglie per evitare lo sconfinamento delle
greggi.
Si costeggia un fiordo di
aspetto norvegese; più avanti, pausa-pranzo alla
Kylemore Abbey, che non è un abbazia ma
una villa-castello vittoriana, interessante. C'è
annesso uno scenografico orto botanico, che però
si trova un po' lontano: una navetta, compresa
nel biglietto, lo raggiunge; solo che la gente è
così tanta che si perde più tempo a far la coda
che andarci a piedi. . Paesaggio
aspro e scorci sul mare.
Altra sosta a Clifden,
il grazioso capoluogo locale. Segue un paesaggio
ancora aspro, ma adesso all'interno e con una
successione di laghi e laghetti; poi si torna
sulla costa, con vista delle basse isole Aran.
Si riparte l'indomani con un
lungo giro attorno al golfo: dopo più di un'ora
dalla partenza abbiamo ancora Galway di fronte.
Paesaggio via via più aspro e grandioso; la
strada corre un po' lungo il mare e un po'
all'interno; ancora le isole Aran, adesso
vicine.
Ed eccoci alle celebri
scogliere di Moher. Arrivandovi
dall'interno, in un dolce paesaggio di prati
frequentati come sempre da mucche e pecore al
pascolo, fa meraviglia di trovare questo
precipizio, che in certi punti tocca i 200 m e
continua per chilometri, sul mare.
Queste falesie fanno degno contraltare a quelle
sui due lati della Manica, ma qui le rocce sono
scure invece che chiare. Le costeggia un
sentiero che per mia fortuna non tocca mai
l'orlo ed è dotato di solidi parapetti; però in
certi punti è stretto e la folla di ferragosto
crea i suoi bravi ingorghi. Ci sono allarmanti
cartelli a sconsigliare i deboli di cuore, e,
comprensibilmente, severe minacce a chi esce dal
sentiero; ma, almeno nella piccola parte che ho
percorso, non ho visto alcun punto privo di
protezioni. Per fortuna tutte le attrezzature
turistiche (bar, ristoranti, museo, ecc.) sono
sotterranee, come saggiamente oggi si usa fare.
Non oso pensare a quali casoni e grattacieli si
sarebbero costruiti negli anni '50 o '60 se ci
fosse stata allora la stessa massa di turisti di
oggi.
Il castello di Bunratty
è un torrione massiccio, con grandi saloni, che
andava in rovina. Acquistato 70 anni fa, è
arredato con pezzi raccolti in giro e quindi non
“suoi”, pur se originali. Lo stesso vale per il villaggio adiacente, definito
“tipico”, ma in realtà un'invenzione costruita
da zero, pur se con pezzi originali.
Interessante in ogni caso, ma forse la sosta
poteva esser sostituita con una a Limerick.
La quale viene invece evitata
con un tunnel sotto il fiume. La sosta a
Charleville è dovuta solo alla necessità di
frazionar opportunamente le tappe: anche
quest'albergo, pur bello e dotato di piscina e
spa, è lontano dal centro, e il paese è
senza interesse. Una sosta di puro relax, il cui
carattere forse andava meglio chiarito nel
programma.
Continuiamo verso sud-ovest e
questa è a parer mio la zona più bella dal punto
di vista “bucolico”.
Ci fermiamo a Killarney,
ma solo per motivi tecnici. Cittadina
graziosa e dintorni con ville e parchi
grandiosi, trasformati in alberghi. Sosta
successiva al Red Fox Inn (ottimo il suo
irish coffee); la quantità di pullman
turistici mi fa pensare che questo locale
sponsorizzi i vari viaggi. Anche l'adiacente
villaggio di Kerry Bog è ricostruito,
sempre con pezzi originali, cani e pony
compresi, ed a modo suo interessante anche
perché illustra la lavorazione della torba
(“bog”). Forse si poteva barattare la sosta con
un giro a Killarney.
Siamo qui sull'anello del
Kerry, un itinerario circolare tutt'attorno
alla penisola di Iveragh. Sembra che i
numerosissimi pullman turistici lo percorrano,
come noi, tutti in senso antiorario per evitar
d'incrociarsi su quella stradina. A sinistra le
montagne, per lo più a prati sempre punteggiati
di bestie; a destra il mare con scorci continui.
A Cahersiveen, paese natale di Daniel O'Connell,
c'è una curiosità: la chiesa -moderna- è
consacrata a lui, caso unico per un laico.
Pausa-pranzo a Waterville, sulla spiaggia, dove
veniva in vacanza Charlie Chaplin (c'è il
monumento, manco a dirlo); poi altre soste
fotografiche. La costa è frastagliatissima,
bordata di isole, isolette e scogli; il mare qui
potrebbe sembrare
quello della Sardegna o della
Croazia, se non fosse per i prati smeraldini,
sempre immancabilmente popolati, che arrivano a
toccarlo. Poi si continua
all'interno, salendo per paesaggi aspri, con
qualche laghetto, fino ad un valico, dove ci
fermiamo per il panorama. Qui i prati intorno
sembrano quelli dei passi alpini; eppure siamo a
bassa quota. È il cosiddetto Ladies' View (in
realtà il punto preciso è poco più sotto),
chiamato così dallo stupore dalle dame di
compagnia della regina Vittoria venuta qui in
visita ai tempi. Siamo nel parco naturale di
Killarney, e si scende nelle foreste che intanto
riprendono, qui anche di abeti, mai visti
altrove. Si dominano altri laghi.
Avvicinandosi a Killarney,
ricominciano i grandi parchi con ville e
alberghi di lusso visti stamattina. Sosta
tecnica in uno di questi, il Muckross
garden. Ne approfitto per un'occhiata
rapidissima alla villa-castello.
Gran traffico sulla strada, e
si va a singhiozzo. Evitiamo la città e
chiudiamo l'anello tornando sulla strada di
stamattina, ma per poco, perché poi si procede
verso Cork; è ormai tardi e la stanchezza si
sente.
Meglio sarebbe stato far
l'ultima tappa a Cork, che evitiamo
passando sulla tangenziale, invece che
nell'anonima Garryvoe, che si trova altri
30-40 km al di là. Si sarebbe così anche evitato
di infliggere almeno altri tre quarti d'ora di
viaggio ai partecipanti: la tappa di oggi era
già abbastanza lunga. Idem per quella di domani,
dove bisogna ripassare da Cork per prender
l'autostrada. Il tempo risparmiato doppiamente
poteva servire per un breve giro in città.
Lasciamo definitivamente il
mare diretti a Dublino. Ma prima ci sono due
fermate importanti.
La rock of Cashel si
presenta già da lontano come una fungaia di
torri, soprelevata in bella posizione a far da
sfondo al paese. È un assieme di chiese,
castello, torre e altri edifici minori, tutti
diroccati perché pure qui Cromwell -ancora lui-
ha lasciato il segno. La cattedrale è
scoperchiata e richiama un po' quella di
Jumièges sulla Senna, e la nostra S. Galgano. La
tor re rotonda col tetto a punta e le numerose
tombe nel prato ricordano Clonmacnoise. Bel panorama dalle mura su
altre rovine lontane e sulla campagna attorno,
verdissima e immancabilmente punteggiata di
macchie bianche e nere. In questo punto ci
troviamo a short way to Tipperary, che in
effetti è solo ad una ventina di km ad ovest e
deve la celebrità solamente alla canzone.
Sempre circondati dalle
mucche in paesaggi bucolici si arriva a
Kilkenny. Qui ci fermiamo alla cattedrale di
St. Canice, soprelevata e isolata,
circondata da un prato con le sue brave tombe e
la torre rotonda. Questa è intatta, malgrado
l'impegno del solito Cromwell, e l'interno è
interessante.
Queste due ultime visite
erano senza guida, con una documentazione un po'
approssimativa.
Passiamo poi al castello,
dove la visita è libera. Fuori ci sono due
suonatori
in kilt -verde s'intende- che danno
rumoroso spettacolo, uno alla cornamusa e
l'altro al tamburo. Peccato che le nuove
generazioni non sappiano apprezzare la musica
tradizionale. Il
castello non è eccezionale, ma ha un
bell'interno con arredi stavolta originali, un
bel parco lungo il fiume ed un giardino
all'italiana sul retro.
Si rientra a Dublino
allietati da un ingorgo sull'autostrada; è pur
sempre l'ora di punta serale. Evidentemente non
abbiamo noi l'esclusiva degli imbottigliamenti
stradali. Ma con quello di ieri sono stati gli
unici due; forse un viaggio simile da noi ne
avrebbe incontrati molti di più.
La serata prevede la cena in
un locale tipico, fuori città, con spettacolo
folkloristico. Fortuna che la differenza di
lingua ci ha messi al riparo dall'esser
coinvolti nello show, com'è invece capitato ad
una turista australiana del tavolo a fianco.
Ormai il viaggio è finito ed
è la volta dei saluti; secondo gli orari dei
vari aerei del rientro, i trasferimenti
all'aeroporto iniziano già in piena notte. Noi
siamo fortunati a partire verso sera, così ci
avanza una mattinata libera per le ultime
visite.
La mattina dopo sembra
autunno: piove in continuazione, tira vento e
siamo sui 14°. Poteva essere questo il clima
medio durante la vacanza; invece abbiamo avuto
solo pochi e brevi sprazzi di pioggia,
abbastanza sole e mai un freddo come adesso: ci
è andata davvero bene.
La pioggia consiglia i musei,
finora snobbati. Visitiamo il Little Museum, un
gioiellino sulla recente vita dublinese, tutto
costituito di oggetti e cimeli donati dalla
popolazione: foto, manifesti, libri, arredi e
altri pezzi di vita famigliare. Molti parlano
inevitabilmente della lotta per l'indipendenza;
gli Inglesi come sempre non ci fanno una bella
figura. Passiamo quindi alla birreria
Guinness, che dicono essere il luogo più
visitato d'Irlanda: a giudicare dalla gente
dentro, concordo pienamente. Per fortuna i più
devono aver preso il biglietto in anticipo:
nessuna coda. Dentro sono illustrate, anche con
filmati d'epoca, sia la preparazione della
birra, sia quella, forse più curiosa, delle
botti. Dappertutto, macchinari d'ogni sorta ed
epoca, comprese le piccole locomotive dei treni
in servizio interno. Il prezzo del biglietto
-salato- comprende anche una pinta di birra; se
l'avessi saputo avrei avuto cura di mangiar
qualcosa appena prima, per non ingollarla a
stomaco vuoto. I bar ci sono, ma lontano dalla
sala dove la servono. Questa sala è in alto e
consente un panorama a 360° sulla città.
A proposito della cucina
locale: non ricordo niente di eclatante: fish &
chips, stufati e patate in tutte le maniere; e
poi ostriche, spigole e salmone, il mio
preferito. Sono buoni non tanto per la ricetta;
è buona la materia prima che c'è sotto. Va
ricordato poi che la patata ha avuto una grande
importanza nella vita irlandese, perché è stata
la sua mancanza per un parassita a metà '800 a
provocare la grande carestia e la conseguenze
emigrazione negli USA. Ho sempre ordinato piatti
locali, perché nei viaggi mi par giusto
dimenticare la cucina italiana per mangiare e
bere ciò che mangiano e bevono quelli del posto,
almeno nei limiti del possibile, cioè fatti
salvi certi piatti tremendi tipo l'Haggis
scozzese o gli intrugli asiatici a base
d'insetti. La regina del settore gastronomico è
stata senza dubbio la birra scura Guinness,
che a rigore non è la mia preferita (assegno il
primato alla Pilsen), ma che ho sempre
ordinato per le ragioni anzidette. Fatti tutti i
conti, devo averne trangugiati fra i sei e i
sette litri in otto giorni, al ritmo d'una pinta
(0,56 l) alla volta. E neanche il più piccolo
mal di testa, nemmeno dopo l'ultima, tracannata
come detto a stomaco vuoto.
Ed eccoci all'aeroporto con
grande anticipo; in compenso è in ritardo
l'aereo: all'inizio si parla di un'ora, ma al
decollo saranno due e mezza! Si arriva così a
mezzanotte, nell'ancor caldo abbraccio della
Valpadana.
28 agosto 2023 Giovanni
Saccarello
UNA SETTIMANA “LETTERARIA” IN
VENETO
Un soggiorno nella campagna
tra i Colli Euganei e i Colli Berici ci ha
portato a riscoprire lo scrittore vicentino
Antonio Fogazzaro (1842
–
1911), attraverso splendidi luoghi che hanno
ispirato alcune sue opere. La scelta della
località dove abbiamo soggiornato
–
Montegalda, in posizione strategica tra Padova e
Vicenza–
in realtà è stata abbastanza casuale:
cercavamo
un posto tranquillo, lontano dagli affollamenti
agostani, una sorta di locus amoenus, e abbiamo
trovato qui, tramite Booking, una bellissima
villa ottocentesca immersa in un vasto parco,
con una splendida piscina: Villa Lioy
–
Faresin. La doppia denominazione nasce dal fatto
che la storica Villa Lioy è stata acquistata
qualche anno fa da Marco Faresin, classe 1934,
stimato commercialista di Vicenza, che ha deciso,
con grande coraggio e risolutezza, di preservare
l’edificio e il prezioso patrimonio arboreo (vi
si trovano, su quasi due ettari,
farnie
secolari, cedri, bagolari) altrimenti destinati
al degrado. Non è raro che a salvare beni
artistici e bellezze naturali, in Italia,
intervengano i privati, che vi investono energie
e denaro, consentendone poi un utilizzo, in
diverse forme: in particolare il Veneto, che ha
un’immensa ricchezza in ville e castelli,
beneficia di iniziative che testimoniano la
volontà di singoli cittadini in tal senso; e
Faresin ne è senz’altro un esempio.
La famiglia Lioy, di antica
nobiltà pugliese, acquistò la villa nel 1919; il
suo più noto esponente, Paolo (1834
–
1911) , nato a Vicenza, naturalista, autore di
saggi e studi importanti, di vasta rinomanza all’epoca,
impegnato anche in politica, ebbe numerose
cariche pubbliche: fu eletto deputato e poi
senatore del Regno, nel 1905. Paolo Lioy
frequentava i salotti letterari vicentini e
conobbe presto il più giovane Fogazzaro, con il
quale strinse amicizia. A Montegalda la famiglia
Fogazzaro aveva una residenza, citata in Piccolo
Mondo Moderno, una delle ultime opere dello
scrittore, come “Villa Flores”, e ora Villa
Fogazzaro
–
Roi
–
Colbachini, risalente al XV sec. ma più volte
ampliata. Ha un Giardino all’Italiana e un Parco
Romantico; ospita il Museo delle campane. Pur
essendo vicinissima a Villa Lioy non siamo
tuttavia riusciti a visitarla, in quanto aperta
solo il sabato alle 10, su prenotazione. Antonio
soggiornava a Montegalda soprattutto nel periodo
della vendemmia; fu eletto consigliere comunale
e il Comune, nel 2009, gli ha dedicato una
lapide commemorativa,
ricordandolo
come “insigne cantore di questa terra, dove,
nell’appassionata ricerca di fede, narrò la
natura, i luoghi, e profuse per la gente
munifica generosa liberalità”. Il fratello Luigi
fu il primo sindaco di Montegalda dopo l’unità
d’Italia. In Piccolo Mondo Moderno le vicende
sono ambientate anche a Teolo, nell’Abbazia di
Praglia, che abbiamo visitato, guidati da un
monaco benedettino appassionato di storia
dell’arte, trovandola di grande interesse. “Praglia”deriva
da “pratàlea”, che significa “località tenuta a
prati”: e l’abbazia spicca in effetti tra campi
e prati molto estesi, alle pendìci
settentrionali dei Colli Euganei. Risale alla
fine dell’XI secolo, anche se dell’originale
complesso medioevale resta solo la torre
campanaria: fu ampliata e ristrutturata nel XV
secolo. Presenta quattro chiostri, uno detto “botanico”,
con le colonne di marmo rosa di Verona alternate
a quelle bianche di pietra d’Istria, secondo uno
stile prettamente veneziano, un altro pensile,
con un ingegnoso sistema di raccolta dell’acqua
piovana; un terzo chiostro ha un doppio loggiato
e uno più piccolo è associato alla foresteria.
All’angolo sud - est del chiostro pensile si può
ammirare il panorama della campagna circostante
dalla Loggetta Belvedere, cinquecentesca,
dedicata proprio ad Antonio Fogazzaro: è
riportato su una lapide affissa nella loggetta
un passo del romanzo in cui viene citata.
Bellissimo il refettorio, con una stupenda
Crocifissione di fine Quattrocento di Bartolomeo
Montagna e un elegante pulpito coevo. Gli stalli
settecenteschi, i medaglioni e le tele alle
pareti, raffiguranti episodi biblici, rendono la
sala davvero preziosa. La chiesa abbaziale,
consacrata nel 1547, è un notevole esempio di
architettura rinascimentale veneta: ha tre
navate e cappelle laterali con affreschi del
Campagnola, e opere di Paolo Veronese, Luca
Longhi, Giovanbattista Zelotti; spicca un bel
crocifisso ligneo in stile giottesco.
Un’altra visita senz’altro
consigliabile è quella all’Eremo di San Cassiano,
in uno scenario di stupende rocce calcaree,
davvero imponenti, che creano un paesaggio
simile a quello delle Meteore. Per giungere
all’Eremo, incassato in
una cavità naturale, di
origine molto antica ma ristrutturato nel ‘700,
occorre salire per un sentiero che parte sul
lato destro della chiesa di Lumignano, nei Colli
Berici; si giunge in circa mezz’ora di cammino.
La visita, a cura del Gruppo Speleologico Proteo
tel. 348
–
9081160) è possibile però solo la prima domenica
del mese. Dall’Eremo si gode un incredibile
panorama sul territorio circostante. Una vista
altrettanto magnifica si può ammirare anche
dalla Basilica Santuario di Santa Maria del
Monte Berico, che domina Vicenza. Siamo proprio
nella città del Fogazzaro: a lui è stata
dedicata la via del centro storico dove si trova
la casa natale (corso Fogazzaro n.111-115 ), che
senz’altro meriterebbe un restauro e maggior
visibilità, oltre alla lapide sulla facciata che
ricorda il “romanziere poeta”. Si può
raggiungere a piedi dal Santuario
–
bellissimo, con opere di Paolo Veronese e un
piccolo museo con una ricca
collezione di
fossili - attraverso una suggestiva scalinata
coperta, usata dai pellegrini. Abbiamo
attraversato la magnifica piazza dei Signori,
con la Basilica Palladiana e il palazzo del
Capitaniato, capolavori di Andrea Palladio, e le
vie adiacenti, riscoprendo angoli e monumenti
davvero pregevoli che fanno di Vicenza una città
d’arte di grande importanza. Anche i dintorni
sono molto interessanti: fra tutti il lago di
Fimon - ricco di ninfee e uccelli acquatici - di
cui abbiamo percorso un giro completo in circa
un’ora e mezzo di cammino, tra una bella
vegetazione, su un piacevole circuito
ciclopedonale. Ci siamo poi rimessi “sulle
tracce di Fogazzaro” recandoci a Velo d’Astico,
un paese che si può raggiungere in neppure
mezz’ora di autostrada, la A31.
Qui si trovano
la Villa Fogazzaro detta “La Montanina”,
costruita nel 1907 in stile Liberty, in mezzo a
un grande parco, dove Fogazzaro ambientò
“Leila”, il suo ultimo romanzo, del 1910
–
ora appartenente a un’organizzazione
religiosa - e la settecentesca (1752) Villa Velo
Zabeo (collegata alla precedente) costruita dai
conti Velo, trasformata da Fogazzaro in
“Villa
Cortis”
nel romanzo
“Daniele
Cortis”.
Qui una colonna di porfido spezzata
–
la colonna egizia, portata dalle Terme di
Caracalla
–
diventa, per il protagonista del romanzo,
simbolo dell’amore
infelice per la cugina Elena. Noi siamo entrati
nel cortile dal cancello aperto, seguendo
fiduciosi l’indicazione
stradale
“Villa
Velo
–
Villa Cortis, Itinerario fogazzariano”
: ma l’edificio
era deserto, con masserizie e amache un po’
ovunque che davano purtroppo un’impressione
di disordine, tanto che ne siamo usciti in
fretta alquanto delusi. Forse sono ancora in
fieri i lavori di restauro iniziati dall’ultimo
proprietario!
Una villa che invece ci ha
entusiasmato è stata Villa dei Vescovi, donata
al FAI nel 2005 dagli ultimi padroni di casa, i
coniugi Olcese. Nella porzione nord-est del
Parco Regionale dei Colli Euganei, a Luvigliano,
sorge su una sommità, circondata da ettari di
verde; la sua fondazione è dovuta al vescovo
Francesco Pisani, che la volle far costruire nel
1535, su progetto di Giovanni Maria Falconetto.
I
lavori furono diretti da Alvise Cornaro,
letterato e amministratore della curia padovana.
Il risultato fu un vero gioiello del
Rinascimento, un “luogo delitiosissimo”,un “superbo
palagio con vaghissimi giardini”, come fu
descritto, dove architettura e paesaggio si
fondono mirabilmente. Nei secoli successivi
passa da dimora principesca dei vescovi a
monastero e perfino alloggio per gli sfollati
nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Il
critico d’arte Roberto Longhi segnalò un grave
rischio di degrado, in particolare per i
meravigliosi affreschi dell’olandese Lambert
Sustris nelle numerose sale. Gli Olcese già
citati, facoltosi imprenditori milanesi e veri
mecenati, l’acquistarono negli anni ‘60 e
iniziarono i restauri. La visita lascia davvero
stupefatti per tanta bellezza; dalle logge si
ammirano il vasto Brolo agricolo e i colli dalla
caratteristica forma a cono, essendo antichi
vulcani. Qui non abbiamo trovato tracce
fogazzariane ma, curiosamente, ecco comunque un
riferimento letterario: degli Olcese fu ospite
Dino Buzzati, che riportò in Cronache terrestri
un suo articolo intitolato Festa in villa col
mago.
Dopo la visita ci siamo
spostati a Padova, città stupenda già più volte
visitata, per raggiungere una meta collegata
alla precedente: la Loggia e l’Odeo Cornaro, nei
pressi della Basilica di Sant’Antonio. Alvise
Cornaro, l’umanista cinquecentesco sopra
nominato (1480
–
1566) autore dei Discorsi intorno alla vita
sobria, fece costruire, su progetto dell’amico
Falconetto, una sorta di luogo di delizie
intellettuali: un teatro ispirato alla frons
scenae romana
–
dove si presentavano spesso lavori del Ruzante,
ossia Angelo Beolco, che forse in alcuni casi
recitava una parte
–
e vari locali affrescati dove potevano svolgersi
riunioni, convegni, dibattiti di alto valore
culturale. Il Ruzante era amico del Cornaro: fu
proprio nella sua casa che morì, nel 1542. Gli
affreschi sono davvero singolari: si scoprono
anche simboli alchemici e massonici.
Essendoci spostati nel
padovano non potevamo mancare un’altra meta “letteraria”
fondamentale: Arquà Petrarca. Qui il sommo
autore del Canzoniere si trasferì nel 1370,
avendo avuto in dono una casa dal signore
di
Padova, e vi morì nel 1374. Il suo sepolcro è
una sorta di imponente arca di pietra posta
davanti alla chiesa di Santa Maria Assunta, dove
furono celebrati i funerali, ed è stato nei
secoli meta di poeti e letterati da tutta Europa.
L’iscrizione latina sul sacello fu dettata,
qualche tempo prima della morte, dallo stesso
Petrarca. La sua ultima dimora si raggiunge
salendo verso la parte alta del borgo: fu più
volte modificata e decorata, nel ‘500, con
affreschi e tempere sulle pareti, ispirate alle
opere petrarchesche. Fu poi sciaguratamente
abbandonata, tanto che Ugo Foscolo denunciò la
situazione scrivendo che la sacra casa di quel
sommo italiano sta crollando e il viaggiatore
verrà invano di lontana terra, perchè la casa di
Francesco Petrarca è diventata un mucchio di
rovine coperto di ortiche. Per fortuna
successivi passaggi di proprietà, fino alla
donazione al Comune di Padova, portarono ai
necessari restauri.
Nella vicinissima Monselice
siamo saliti al seicentesco Santuario Giubilare
delle
Sette Chiese, dopo essere passati per il
Castello, la Villa Nani Mocenigo e la bella
Pieve di Santa Giustina, tardo romanica.
Panorama davvero stupendo anche dalla terrazza
–
scalinata di Villa Duodo, a lato del Santuario,
accanto all’Oratorio
di San Giorgio. Scesi poi verso il canale
Bisatto abbiamo visitato qualche stanza
affrescata di Villa Pisani, d’impianto
palladiano (ingresso gratuito). Giorgio Bassani
dedicò a Monselice, colle celeste, fronte pura e
lontana, una bella poesia nella raccolta
Primi
versi, del 1942.
Per ultimo ci siamo riservati
un luogo davvero magico: il Castello del Catajo,
a pochi minuti di auto da Monselice, a Battaglia
Terme. Il nome deriverebbe da “Ca’ del Tajo”,
dove per “Tajo”, ossia “taglio”, si intenderebbe
uno scavo nella roccia per le acque del canale
che attraversa i suoi appezzamenti di terreno,
estesi per circa 40 ettari, e che confluisce nel
rio Rialto. Gasparo degli Obizzi, appartenente a
una nobile famiglia originaria della Borgogna e
trasferitasi nella Repubblica di Venezia, fece
costruire qui una residenza, tra il 1530 e il
1541, che divenne un vero centro culturale anche
grazie alla sua vedova, Beatrice; qui erano
graditi ospiti i più importanti letterati del
tempo, quali Ludovico Ariosto e Torquato Tasso.
Su progetto dell’architetto
Andrea dalla Valle,
Pio Enea I Obizzi fece poi ampliare l’edificio,
a partire dal 1565, trasformandolo in un vero
castello che doveva essere simbolo del valore
militare della famiglia. Magnifici affreschi
celebrativi, opera di Giovanni Battista Zelotti,
occupano infatti le pareti delle splendide sale. Il
castello si arricchì di preziose collezioni di
armi, monete, reperti archeologici, strumenti
musicali. Giardini meravigliosi, fontane (stupenda
quella dell’Elefante), scalinate che si potevano
salire anche a cavallo, enormi terrazze,
consentivano feste e giochi di corte: non solo
rappresentazioni teatrali e tornei, ma anche
straordinarie naumachie, ossia battaglie navali,
che si svolgevano in un grande cortile
appositamente allagato. Estinti gli Obizzi, il
castello passò prima agli Este, poi agli
Absburgo, che lo utilizzavano come luogo di
villeggiatura; purtroppo
trasferirono a Vienna
mobili e collezioni. Qui trascorsero gli ultimi
giorni sereni l’erede al trono imperiale
Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, prima di
recarsi in visita ufficiale a Sarajevo, dove
furono assassinati dal nazionalista
serbo-bosniaco Gavrilo Princip, il 28 giugno
1914. Esattamente un mese dopo l’Austria
dichiarò guerra alla Serbia dando inizio alla
Prima Guerra Mondiale, alla fine della quale il
castello fu restituito all’Italia come
riparazione dei danni bellici. Venduto a privati,
è stato acquistato a un’asta nel 2016
dall’imprenditore padovano Sergio Cervellin, che
ha provveduto a iniziare i lavori di restauro,
davvero molto impegnativi trattandosi di una
vera e propria Reggia di 365 stanze, circondata
da un parco immenso. Ma gli sforzi profusi,
sostenuti dal grande amore per il luogo, hanno
avuto risultati meravigliosi: il Castello del
Catajo è un incanto, una meta assolutamente
imperdibile. Due lastre di pietra murate nel
cortile d’ingresso
–
una in latino
–
datate 21 settembre 2021, ricordano e
ringraziano
Vittorio Sgarbi:
"Resti qui memoria
della passione e dell’impegno
con cui Vittorio Sgarbi si oppose alla furia
distruttrice di chi non volle riconoscere nel
Catajo un sogno d’oriente
nella Venezia euganea". Nel 2017 infatti è stato
assurdamente proposto dall’Amministrazione
comunale di Due Carrare il progetto di un grande
centro commerciale che doveva sorgere nelle
vicinanze: la lotta di Sgarbi in difesa di un “luogo
sublime che soltanto menti malate e perverse
possono pensare di contaminare” ha avuto per il
momento successo. Il centro commerciale non è
stato costruito. Spetta certo a tutti noi
vigilare sempre per evitare che ignoranza e
avidità attentino al nostro patrimonio artistico
e paesaggistico, realmente inestimabile.
12 Agosto 2023, Anna Busca
LUGLIO 2023
UNA PAUSA RIGENERANTE
IN
TOSCANA
Siamo fuggiti dalla calura
milanese di luglio per ritagliarci quattro notti
sulle colline toscane, tra le province di Siena
e di Grosseto. Abbiamo
trovato, tramite Booking,
un vero locus amoenus, “Il Casale delle Rose”, a
una manciata di chilometri da Paganico, borgo
fortificato risalente al XIII secolo, che
conserva mura, porte e un bel Cassero Senese.
Immerso nel verde di grandi prati all’inglese e
nel silenzio della campagna circostante, priva
di edifici nelle vicinanze, il Casale ha
appartamenti perfettamente ristrutturati,
raffrescati da ventilatori a soffitto, e si può
godere di una bellissima piscina, nonché di
deliziose e abbondanti colazioni. Un valore
aggiunto la cordialità e la simpatia dei
proprietari, che ci hanno anche dato
suggerimenti preziosi per le visite. Scelta
dunque consigliatissima!
Arrivati venerdì nel tardo
pomeriggio, ci siamo poi recati per la cena
all’Agriturismo Fonte di Braca di Campagnatico (meglio
prenotare, cell. 3283786075). La cena, a prezzo
fisso (30 euro), comprendeva ottimi piatti
serviti a tavoli all’aperto, con bella vista sul
tramonto, e un concerto di una cover band di
Lucio Battisti, i Divi Tardivi. La voce di
Francesco Novelli, accompagnato da altri quattro
musicisti (tastiera, chitarra solista, basso,
batteria) ha cantato i più noti successi di
Battisti e anche qualche pezzo meno conosciuto,
evocando ricordi degli anni ‘60 e ‘70 e rendendo
la serata molto piacevole. Il concerto faceva
parte della “Summer Fest
–
Cover Band 2023”,
una rassegna voluta dal proprietario dell’agriturismo,
appassionato di musica dal vivo, che ha previsto
una serie di cene-concerti fino al 1° settembre
(da “Gianna Nannini Tribute” ai Beatles, con
“Nice to beat you”). Le sere successive abbiamo
invece cenato a Paganico, al Bar Ristoro “Il
Tennis” di via Giosuè Carducci (cell. 3351658173
di Tatiana, chiuso il mercoledì), dove abbiamo
apprezzato un’ottima cucina locale, servita in
un bel giardino.
La prima visita ha
riguardato, nella giornata di sabato, la vetta
del Monte Amiata, raggiungibile in auto tramite
diverse strade, oppure, per chi lo preferisce,
salendo in seggiovia dal Prato delle Macinaie.
Noi abbiamo usato l’auto, attraversando la
splendida faggeta: il percorso è un po’ tortuoso
ma
fattibile. In cima si trova un ampio
parcheggio; i numerosi alberghi sono circondati
dalla vegetazione e si può sia pranzare in
ristoranti, bar o bistrot (c’è solo l’imbarazzo
della scelta) che fermarsi a un tavolo di legno
all’ombra dei faggi per un picnic, opzione che
abbiamo preferito, visto un certo affollamento.
In realtà, per raggiungere davvero la vetta,
occorre salire a piedi per un tratto dalla zona
del parcheggio; un curioso tapis roulant al
costo di 1 euro su una pista da sci consente di
accedere senza nessuna fatica
–
per chi avesse problemi! - a pochi metri dalla
croce monumentale di ferro che segna la cima,
alta 22 m e con un basamento che ricorda la Tour
Eiffel. La croce attuale è in realtà un
rifacimento dell’originale dell’inizio del ‘900,
distrutta nel corso della Seconda Guerra
Mondiale. La quota è 1738 m; si respira un’aria
più fresca rispetto alla pianura e si può
ammirare un bellissimo panorama, se non c’è
foschia. È una meta in realtà per tutte le
stagioni: in autunno per un foliage certamente
molto suggestivo; in inverno per sciare (neve
permettendo); in primavera per trekking e
passeggiate. Il Monte Amiata è un antico
vulcano, attivo tra 300.000 e 230.000 anni fa,
ossia nel tardo Pleistocene, ormai spento.
Risulta essere un prolungamento dei cosiddetti
vulcani Romani: i laghi laziali di Bolsena,
Bracciano, Albano, Vico e Nemi sono infatti
tutti craterici. Per questa ragione la zona
presenta numerosi fenomeni di termalismo,
associati al vulcanesimo secondario. Scendendo
dalla vetta, ci siamo fermati a Santa Fiora,
classificato tra i borghi più belli d’Italia. La
Pieve delle Sante Fiora e Lucilla conserva
splendide robbiane, terrecotte smaltate di
Andrea Della Robbia, eseguite tra il 1464 e il
1490: veri capolavori come il pulpito, con
l’Ultima cena e la Resurrezione di Cristo,
oppure il Battesimo di Cristo davanti al fonte
battesimale, incantano il visitatore. Da vedere
anche la chiesa della Madonna delle Nevi (detta
Pescina), che presenta un pavimento di vetro
sotto il quale si può vedere l’acqua delle
sorgenti del fiume Fiora, che alimentano la
vicina peschiera, una grande vasca cinta da un
muro di trachite, voluta dagli Sforza nel XVI
secolo. Il paese è ricco di edifici storici e
chiese; essendo arroccato, la visita è un po’
faticosa soprattutto in una calda giornata
estiva, dovendo salire e scendere scale e ripide
viuzze piuttosto assolate. Ci siamo fermati per
una tappa anche ad Arcidosso, altro borgo
medioevale arroccato, con un bel castello
aldobrandesco, purtroppo chiuso.
Abbiamo dedicato il giorno
seguente, domenica, alla visita di un luogo
straordinario, che coniuga perfettamente arte e
natura: il Giardino di Daniel Spoerri, vicino a
Seggiano (tel. 0564 950 553,
www.danielspoerri.org).
Aperto tutti i giorni da aprile a ottobre,
richiede invece un appuntamento per la visita
negli altri mesi dell’anno. Il parco, curato
dalla Fondazione svizzera Hic terminus haeret
(“Qui aderiscono i confini”, da un passo
dell’Eneide), si
estende per ben 16 ettari ed
ospita 115 sculture, sia di Spoerri che di
cinquantacinque altri artisti contemporanei.
Daniel Feinstein, nato in Romania nel 1930 e
naturalizzato svizzero, adottò il cognome della
madre, Lydia Spoerri; trasferitosi a Zurigo
appena dodicenne, orfano di padre - trucidato
dai nazisti - iniziò a studiare danza classica.
La sua biografia è incredibile, in quanto rivela
un talento artistico completo e una grande
creatività (anche se la negò in più occasioni
sostenendo che non faceva che “mettere un po’ di
colla su oggetti”): è stato ballerino,
coreografo, aiuto regista, poeta, editore,
artista figurativo cofondatore ed esponente del
Nouveau Réalisme, scultore, ideatore della
corrente artistica detta Eat Art, docente
universitario e perfino ristoratore in Germania,
muovendosi tra Parigi, New York, Milano, vivendo
per lunghi periodi prima in Grecia e poi in
Toscana, in questo luogo da lui molto amato. Ha
conosciuto e frequentato artisti quali Marcel
Duchamp
e Man Ray, è stato insignito di premi
prestigiosi. Le sue opere
–
soprattutto in bronzo, ma anche in ferro, marmo,
pietra e altri materiali - colpiscono ed
emozionano: quasi al centro del parco si può
entrare nella sua Chambre N°13 de l’Hotel
Carcassonne, oppure, più a sinistra rispetto
all’ingresso, nell’Ombelico del mondo
–
Unicorni, da cui si ammira il paesaggio
circostante; bellissimo, all’inizio
della visita, il Sentiero murato labirintiforme
(da un petroglifo precolombiano). Tra le opere
di altri artisti si segnalano Dies irae
–
Jour de colère di Olivier Estoppey, dove 160
oche in cemento armato a grandezza naturale si
dirigono, insieme a tre suonatori di tamburi e a
un bambino, verso un luogo imprecisato,
marciando come soldati in guerra, e le splendide
teste in bronzo di Eva Aeppli, che rievocano
simbolicamente i pianeti, lo zodiaco, le
debolezze umane. La visita completa richiede
almeno tre ore, ma è meglio pensare di dedicarne
di più, viste la bellezza e la ricchezza
artistica del luogo, una sorta di enorme museo a
cielo aperto; lungo i percorsi, tra prati e zone
alberate, si possono trovare panchine per una
sosta. Meglio avere un copricapo, scarpe comode
e una borraccia (un bar-bistrot è vicino alla
biglietteria, dopo il parcheggio). L’ingresso
costa 12 euro (studenti 9 euro, bambini fino a 8
anni gratis).
La nostra meta successiva, il
lunedì, è stata Grosseto, che non conoscevamo, a
circa venti minuti di superstrada da Paganico.
Parcheggiata l’auto a ridosso delle mura medicee,
siamo entrati nel centro storico dalla Porta
Nuova, camminando per corso Carducci; in piazza
Dante (detta anche piazza delle Catene) spicca
la facciata a bicromia bianco-rosata del Duomo,
la
Cattedrale di San Lorenzo. Rifatta in stile
neoromanico nel 1840-45, mantiene comunque le
teste originali degli Evangelisti (XIII sec.).
Sul lato settentrionale della piazza,
trapezoidale, si trova il Palazzo Comunale, del
1867, in stile neorinascimentale; sul lato est
il Palazzo della Provincia, o Aldobrandeschi,
dell’inizio del ’900, in stile neogotico. Ci
siamo quindi recati al Museo Archeologico, ma
purtroppo era giorno di chiusura. Considerata
terminata la visita della città, abbiamo optato
per una destinazione naturalistica: il Parco
Regionale della Maremma ( www.parco-maremma.it
), in cui si può entrare da Alberese, a pochi
chilometri dal capoluogo. Acquistati i biglietti
al Centro Visite (tel. 0564 393238
–
0564 407098, 5 euro l’ingresso)
e lasciata l’auto
nei pressi, ci siamo avviati a piedi verso il
sentiero faunistico del circuito A6,
che ci è
parso il meno impegnativo vista la calura.
Abbiamo camminato per qualche chilometro in un
bosco di lecci, immersi in un’aria
davvero
balsamica, sia per la vegetazione, che presenta
essenze aromatiche spontanee della macchia
mediterranea, sia per il mare, vicinissimo, al
di là delle alture. A tratti si incontrano aree
di sosta, a volte con interessanti tavole
didattiche sulle specie vegetali e sulla fauna
locale.
La passeggiata ad anello, pur piuttosto
semplice, ci ha richiesto una certa fatica per
il caldo eccessivo: la temperatura di circa 37°C
non è affatto mitigata dalla lecceta, e si suda
abbondantemente soprattutto sulle salite. I rovi
sui sentieri esigono anche pantaloni lunghi e
calzature adeguate. Vista l’esperienza, valida
ma stancante, abbiamo dedotto che la meta più
adatta sarebbe stata la Spiaggia di Collelungo,
a Marina di Alberese, dove avremmo potuto
rinfrescarci con un bel tuffo… Ma incautamente
non ci eravamo attrezzati per attività balneari:
la prossima volta saremo senz’altro più
previdenti. E in ogni caso, al ritorno al Casale
delle Rose, eccoci a nuotare nella grande
piscina, tutta per noi, per un paio d’ore. Puro
relax in Maremma!
21 luglio 2023, Anna Busca
APRILE 2023
TRA ALTO PIEMONTE
E VAL
D’AOSTA
Un sereno weekend primaverile
può essere sfruttato per un bellissimo tour tra
arte e natura, in luoghi tranquilli e non troppo
turistici. Da Milano abbiamo raggiunto, in
neppure due ore (autostrada A4 Milano-Torino,
uscita Carisio in direzione Cossato) la
splendida Oasi Zegna, patrocinata dal FAI. Si
tratta di un’area montagnosa del Biellese, di
circa 100 km2, ad accesso libero; l’altitudine
varia tra gli 800 e i 2000 m. Fu progettata e
riforestata negli anni ‘30
dall’industriale-mecenate Ermenegildo Zegna
proprietario
del famoso Lanificio, ancora in funzione, che si
può osservare dall’alto percorrendo la
cosiddetta “Panoramica Zegna”, una via di
collegamento di grande importanza paesaggistica.
La strada attraversa l’area longitudinalmente
–
noi l’abbiamo
percorsa da est verso ovest - e sono possibili
numerose tappe per visite ed escursioni.
Agriturismi, alberghi, rifugi e ristori
consentono di rifocillarsi o sostare per una o
più notti (infoline Oasi Zegna: 340.1989593,
lu-ve 9.00-18.00, oppure info@oasizegna.com );
in inverno, la stazione sciistica di Bielmonte
offre piste sia per la discesa che per il fondo.
Nei numerosi punti panoramici si possono
ammirare da un lato le Alpi, in particolare il
massiccio del Monte Rosa, e dall’altro la
Pianura Padana. Ci siamo dedicati a una
passeggiata di poco più di un’ora che ci ha
consentito il “Forest Bathing”, una vera e
propria immersione terapeutica nella vegetazione,
passando da profumati boschi di conifere a
fresche faggete, su un comodo sentiero ad anello,
all’interno del “Bosco del sorriso”. Per le
escursioni proposte, una quarantina
–
che comprendono percorsi
“green
wellness”
e “nordic
walking”
- c’è
solo l’imbarazzo della scelta! Scesi a valle,
una sosta a Biella -segnalata dall’UNESCO come
“Creative city” -
ci
ha permesso di ammirare il bel centro storico,
con il Duomo e il Battistero romanico. Siamo
dunque ripartiti per raggiungere la nostra meta
in Val d’Aosta: Challand-Saint-Anselme, un
piccolo comune della Val d’Ayas dove avevamo
prenotato una stanza tramite Booking (Hotel Le
Soleil); l’ottima cena in albergo -molto
accogliente - ci ha fatto gustare una squisita
carbonade valdostana con polenta e le tipiche
tegole dolci. Abbiamo dedicato la mattina
seguente a un’altra passeggiata, molto facile e
tutta in piano, alle cascate di Arlaz, che si
raggiungono seguendo un lungo e stretto canale
di irrigazione, in mezzo al bosco. La zona è
splendida, sia per il paesaggio circostante che
per i prati verdissimi; avendo tempo si può
camminare verso piccoli laghi e altre cascate.
Noi invece abbiamo scelto di recarci per uno
spuntino a Gressoney-La-Trinité, per poi
spostarci a Gressoney-Saint-Jean dove abbiamo
ammirato il Castel Savoia, costruito tra il 1899
e il 1904, simile a un castello delle fiabe; la
regina Margherita, innamorata di questi luoghi,
che era solita frequentare, vi trascorse lunghi
periodi estivi con la sua corte, per una ventina
d’anni. Lasciata la Val d’Aosta, eccoci nel
Canavese,
un’area geografica dai confini incerti, tra la
Serra d’Ivrea, il Po, le Alpi Graie, la Stura di
Lanzo; comprende parte del Parco Nazionale del
Gran Paradiso ed è ricca di laghi e oasi
naturali. Una tappa a Ivrea, capoluogo del
Canavese, è d’obbligo: anch’essa città
dell’UNESCO, famosa per lo storico “Carnevale
delle arance”, vanta un bellissimo castello e un
sito di valore
architettonico-urbanistico-industriale, l’ex
Olivetti. Abbiamo pernottato a San Giorgio
Canavese, centro soprannominato “l’Atene del
Canavese” perché parecchi intellettuali e
artisti vi sono nati, nel XVIII-XIX secolo, o vi
hanno eletto la propria residenza. Il nostro bed
& breakfast, prenotato su Booking, si chiamava
proprio così (è gestito dai gentilissimi
proprietari dell’omonima casa editrice).
Canali,
un castello, bei palazzi (stupenda la Villa
Malfatti, con un immenso parco, costruita
all’inizio dell’Ottocento dalla cantante lirica
Teresa Belloc-Giorgi, al secolo M.Teresa Ottavia
Faustina Trombetta, e poi passata ai baroni
Malfatti) connotano la cittadina, il cui punto
di forza è la vicinanza al meraviglioso Castello
Ducale di Agliè, aperto solo da venerdì a
domenica. La prenotazione per la visita è
obbligatoria
(drm-pie.aglie.prenotazioni@cultura.gov.it; tel.
0124 330102, servizio attivo da lunedì a sabato
dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 18.00).
Siamo rimasti stupefatti per la ricchezza e la
bellezza delle sale, che rendono il sito un
gioiello unico nel panorama storico-artistico
non solo piemontese ma di tutta Italia. Il parco,
vastissimo, non era accessibile per lavori di
manutenzione; siamo invece riusciti a visitare i
giardini. Di origine antica (il nucleo
originario risale al XII secolo) il castello
subì numerose trasformazioni;
fu il re Carlo Felice a decidere gli ultimi
interventi, nel 1825, affidati agli artisti di
corte. Nella Sala Tuscolana sono collocati
antichi reperti romani provenienti dalla Villa
Rufinella presso Frascati e collezionati da
Carlo Felice e dalla regina Maria Cristina.
Magnifica la Sala da ballo. Una curiosità: fu
ambientata in questo castello la prima stagione
della fortunata serie televisiva “Elisa di
Rivombrosa”, trasmessa tra il 2003 e il 2005,
che ebbe un enorme successo di pubblico. Da
Agliè in breve tempo abbiamo raggiunto il Parco
naturale del lago di Candia - ultima nostra meta
del tour - zona di notevole importanza
faunistica e botanica; il lago si trova tra
boschi e canneti e offre numerose aree di
nidificazione per uccelli migratori (circa 200
le specie censite). Qualche spiaggetta
–
cui si accede da bar
o
ristoranti - consente un po’
di relax. Non esistono percorsi pedonali che
consentano un circuito ad anello; i sentieri
sono solo tra la vegetazione nella zona delle
paludi. Noi abbiamo optato per una breve
camminata su una strada asfaltata, che ci ha
comunque permesso di cogliere belle vedute del
paesaggio. Il lago di Candia è stato scelto dal
regista Gianluca Mangiasciutti come
ambientazione del suo film “L’uomo sulla strada”
(2022): ed è stata proprio la visione di questo,
con le sue immagini suggestive, a darci lo
spunto per la visita! E torneremo presto
senz’altro in questa bella regione per nuove
mete e altre scoperte.
Milano, 15 aprile 2023 Anna
Busca
SETTEMBRE
2022
La Francia centrale in sedici giorni
di Giovanni Saccarello
La zona scelta è una striscia
nella parte centrale della Francia: Alvernia,
Aquitania, Occitania. È stata aggiunta una
puntata a nord fino alla bassa Loira, per
includere Angers e Nantes, omesse nel precedente
viaggio dei castelli, ed un solo accesso al mare
(La Rochelle). Ci siamo spinti a sud-ovest fino
a Bordeaux. A parte le città maggiori, sono zone
piuttosto ignorate da noi; infatti si sono
incontrati pochissimi connazionali, come
sapevamo già. Ci siamo dedicati soprattutto alle
città (tranne alcune pur notevoli, come Lione,
Clermont-Ferrand, Le Puy, Bourges, Sarlat, già
viste in viaggi precedenti) ed ai castelli ed
abbazie isolati. L'auto era inevitabile, specie
per raggiungere questi ultimi e per i panorami;
sono stati 3.500 km in totale.
Abbiamo sempre preso alberghi
(tutti prenotati, vista la piena estate) in
pieno centro città, con le sole eccezioni di
Issoire e Grignan, perché la comodità della
visita a piedi compensa la difficoltà del
parcheggio. Due notti di fila solo ad Angers,
Bordeaux e Périgueux, quest'ultima per
l'escursione nella vicina valle della Vézère
dove sono concentrati in poco spazio numerosi
punti d'interesse, a cominciare dalla grotta di
Lascaux. Per brevità abbiamo tagliato musei,
escursioni naturalistiche o balneari, e
strutture moderne tipo il Futuroscope
di Poitiers o il viadotto autostradale di Millau.
Naturalmente c'è stato da
fare i conti col riscaldamento globale.
Quest'estate mezza Francia è andata arrosto;
eppure nel nostro viaggio, pur avendo sfiorato
le Lande ed il Médoc, non abbiamo visto incendi
in corso, tranne estese tracce a sud-ovest di
Cahors, arrivandovi da Moissac, e qualcosina
attorno a Grignan. Invece dalle parti di
Rocamadour la vegetazione appariva bruciata non
dal fuoco ma dalla siccità, e presentava un
aspetto autunnale del tutto fuori stagione.
Partiti e rientrati sotto un
sole tremendo ed un caldo insopportabile, per
tutta la parte centrale del viaggio abbiamo
goduto di un tempo variabile, con piogge e
fresco. Prima del riscaldamento globale si
sarebbe detto “goduto” parlando del bel tempo,
ma adesso dobbiamo ammettere che le nuvole sono
meglio del sole; le piogge, poi, si sono
scatenate per lo più di notte o durante i
tragitti in macchina, e ci hanno disturbato ben
poco.
Non descriverò qui i
tesori d'arte: questo è compito delle guide;
dirò solo delle impressioni e delle curiosità.
Una costante: quasi dovunque
si capitava, si era sul Cammino di Santiago di
Compostela. Vien da pensare: lo stiamo seguendo;
eppure per lo più la nostra direzione era
perpendicolare. E allora? La verità è che sono
tanti itinerari (sarebbe più corretto parlarne
al plurale), ma soprattutto che è un richiamo
turistico, e nessuna città vuole star fuori da
questo nuovo business.
Volevamo escludere la zona
alpina per non mettere troppa carne al fuoco;
abbiamo perciò scelto Grenoble
come prima tappa solo per spezzare le distanze.
Si è deciso infatti di contenere le tappe entro
i 300 km,, e questa è stata l'unica eccezione
toccando i 370, ma era l'unica tappa tutta di
autostrada. Per la verità l'ultima è stata ben
più lunga (465 km), ma era quella di rientro e
non c'era il problema di trovar alberghi e
parcheggi litigando con le zone pedonali in
città sconosciute, per tacere poi del successivo
riposo totale.
Grenoble ha un centro storico
piccolo rispetto alle dimensioni attuali della
città, ed i massimi punti d'interesse sono tutti
ben raccolti. Perfino la telecabina per la
Cittadella, il punto panoramico sulla città,
parte a pochi passi dalla chiesa di St. André.
Su e giù per le colline fra
Delfinato e Rodano si arriva all'abbazia di
Saint-Antoine, che domina il
paese come una fortezza. L'ingresso est ha tetti
e torrette a vivaci colori; ad ovest uno scalone
sale alla chiesa.
Più a nord-ovest c'è il
“palazzo ideale” di Hauterives.
È l'opera fantasiosa del postino del paese che
l'ha fabbricata dal 1879 al 1912, con le pietre
raccolte sul fiume e cementate in forme bizzarre.
Non è un palazzo abitabile, ma una vera e
propria architettura naif, unica del genere, con
pinnacoli e decorazioni surreali a figure
svariate e stravaganti. Pare che l'ideatore
abbia avuto l'ispirazione dopo esser scivolato
su una pietra levigata del fiume; la botta
dev'essere stata illuminante. La pietra fatale è
comunque conservata incastonata nella
costruzione.
Vienne
conserva diversi reperti romani (teatro, tempio
d'Augusto), ma qualche anno fa, a Sainte-Colombe,
l'abitato sulla riva opposta del Rodano, è stata
scoperta per caso una vera Piccola Pompei.
Tutti i siti che ne parlano la ritengono una
scoperta sensazionale, per vastità e stato di
conservazione, eppure nessuno dice se sia
visitabile; niente informazioni in loco per
questioni d'orario. Pare dunque che si dovrà
aspettare.
Più ad ovest tocchiamo
Le Puy-en-Velay, ma la
conoscevamo già e facciamo una breve sosta solo
per il suo straordinario panorama, con gli
incredibili picchi vulcanici, il più aguzzo dei
quali ha una chiesa sulla cima. E siamo sul
Cammino. Proseguiamo in un ambiente via via più
alpestre fino a toccare La Chaise-Dieu
e visitare la sua celebre abbazia benedettina
(la “casa Dei”) con arazzi ed una notevole
danza macabra.
Montpeyroux,
arroccato in cima al colle, ricorda un po' un
paese dell'Italia centrale anche per le belle
case.
Issoire
vanta una chiesa con interni policromi e segni
zodiacali all'esterno dell'abside, un soggetto
che non ci si aspetterebbe di trovare in un
santuario.
Sono molto belle le case in
pietra di Besse-en-Chandesse,
una cittadina fortificata su un altipiano: non
si direbbe, ma è a mille metri di quota e non ha
l'aspetto montanaro che avrebbe da noi.
Tutt'attorno il paesaggio, al
culmine del Massiccio Centrale, è caratteristico:
dossi arrotondati alternati a crateri vulcanici,
tutti a prati alle quote alte, con panorami
sterminati, e coperti di foreste più in basso.
Ad Aubusson,
la capitale dell'arazzo, abbiamo trovato un
albergo (hotel de France) che risale al
settecento. La cittadina ha numerose case a
graticcio e con la sua posizione incassata fra
le colline offre belle vedute.
Un gran campanile fra le
colline annuncia di lontano
Saint-Léonard-de-Noblat; il centro è
pieno di belle case a graticcio. All'ingresso
della chiesa, la conchiglia sul selciato ricorda
che ci troviamo sul Cammino.
Limoges ha
due centri storici staccati: il primo sul colle
attorno alla cattedrale gotica; il secondo, più
laico, è incentrato sulla rue de la Boucherie,
con le vecchie case -sempre a graticcio- dei
macellai, e sulle vicine Halles del 1889. Pure
interessanti il vecchio ponte sulla Vienne e
l'estrosa stazione des Bénédictins, rifatta nel
1926. Prima della ferrovia s'intende che la
città era servita dal Cammino.
Poitiers
occupa un'altura circondata dai fiumi Clain e
Boivre, un po' incassati, il che fornisce
panorami, anche se non ci sono terrazze. Nel
centro medievale spicca la chiesa di
Notre-Dame-la-Grande, dalla magnifica facciata
romanica. Pure interessante il complicato
palazzo di giustizia che occupa una parte
dell'antico castello. Anche di qui passa il
Cammino.
Dirigendosi verso Angers,
facciamo una deviazione al castello di
Oriol, ma la fretta ci costringe a
guardarlo solo da fuori. Anche alla vicina
Thouars ci accontentiamo di un
giro con un paio di soste per ammirarne la bella
posizione, specie dal ponte sul Thouet, dominato
dal castello e dalle case antiche attorno.
Montreuil-Bellay
ha un castello bello per la posizione, l'aspetto
esterno e gli arredi; lo trovo il migliore fra
quelli visitati. Fra gli interni il clou
è senz'altro la cucina, che, oltre ad
essere ancora dotata di stoviglie e utensili
d'epoca, dispone di un'enorme cappa, che, se non
è a livello di quelle celebri di Sintra in quel
di Lisbona, ne è una buona imitazione. Qui ho
anche scoperto l'origine della parola
barbecue: più che un modo di cucinare, è un
modo di sventrare le bestie con un taglio “de la
barbe au cul”.
Angers è
attraversata dalla Maine, un fiume maestoso
eppure brevissimo: formatosi pochi km a monte
dall'unione di Mayenne, Sarthe e Loir, finisce
pochi km a valle nella Loira. La città possiede
case a graticcio, una cattedrale gotica ed un
grande castello con mura a grosse torri
cilindriche, purtroppo mozzate nei secoli, e che
contiene fra l'altro una lunga serie di arazzi
sul tema dell'Apocalisse conservati in un locale
moderno che da fuori stona parecchio fra gli
elementi del castello.
Un'escursione serale d'una
decina di km porta ai Ponts-de-Cé,
dove la strada che esce verso sud scavalca i
vari bracci della Loira, più un paio d'affluenti,
su una serie di ponti di fila, di antica origine,
con strette isole fra l'uno e l'altro. Oggi
qualche braccio è stato interrato, un altro è in
secca assoluta, ma il luogo, vigilato anche da
un castellotto, è comunque interessante.
A Nantes
Il castello, anche qui in
pieno centro, è grandioso, con un imponente
palazzo residenziale; il giro delle mura è
percorribile per intero, e gratis. La cattedrale
è invece inaccessibile, essendo in restauro dopo
l'incendio di un paio d'anni fa.
Nessuna sosta in Vandea, dove
non ci sono -o non sono rimaste- vestigia
storiche particolari, né paesaggi tipici.
L'interesse di questa zona è soprattutto
balneare, e la cosa non era nelle nostre
intenzioni.
La Rochelle
vanta un bel porto vecchio, il cui ingresso dal
mare è
sorvegliato da due torri vicine che ai
tempi potevano sbarrarlo con una catena tesa fra
le due. Un'altra torre, con una guglia elaborata,
è più lontana e faceva da faro; peccato lo
squallido parcheggio appena sotto. Più lontano
ancora, una selva fittissima di alberature
indica il porto turistico, affollato di barche a
vela: siamo in un centro velico di prim'ordine.
È interessante anche il centro storico, cui si
accede dalla bella porta della Grosse-Horloge.
Nella vicina Surgères
il castello è ridotto ad una cinta di mura, con
torri; l'interno è un parco e contiene la chiesa
di Notre-Dame, vari edifici ed un arco che dava
accesso ad un recinto interno.
A Saint-Jean-d'Angély,
oltre a parecchie case a graticcio spicca lo
scheletro vuoto dell'abbazia, che ricorda un po'
quella di Jumièges sulla Senna, e la nostra S.
Galgano; questa però è in pieno abitato. Abbiamo
ritrovato il Cammino di Santiago.
La chiesa romanica di St.
Pierre ad Aulnay, isolata dal
paese, è riccamente decorata e circondata da un
cimitero con curiose lastre tombali. Indovinate
cosa passa di qua.
A Saintes si
conserva un arco romano privo di strada
d'accesso: infatti è stato ricostruito dov'è
oggi nell'800; in origine era collegato al ponte
sulla Charente, che doveva esser rifatto. Bella
la chiesa un po' periferica di St. Eutrope, con
la cripta dove riposa il santo titolare. Siamo
sempre perseguitati dal Cammino.
Bordeaux
offre un centro medievale con almeno tre belle
porte d'accesso (specie quella della Grosse
Cloche a quella di Cailhau), la cattedrale, e un
raffinato lungofiume settecentesco; è anche
grandiosa per la vastità di certe piazze, in
particolare quella delle Quinconces. Ovviamente
pure di qui passa il Cammino. Uno strano
spettacolo è fornito in certe ore dalla Garonna:
la corrente è impetuosa, ma va contromano! La
ragione è l'alta marea che la vince sulla
corrente indebolita dalla siccità. Ed il bello è
che la foce è a quasi 100 km! Quando invece
anche la corrente è forte, lo scontro fra le due
crea gorghi spettacolari: il mascaret.
Saint-Émilion
si trova su un colle in mezzo ai vigneti; i
dintorni per chilometri e chilometri pullulano
di aziende vinicole. La cittadina è però
notevole per la chiesa monolitica, tutta scavata
nella roccia.
A Brantôme
c'è un'abbazia: più che per meriti suoi è bella
per la posizione lungo la Dronne; il fiume è
molto frequentato dai canoisti e l'abbiamo
percorso per un po' con un giro in battello.
Périgueux
era una vecchia conoscenza, ma vista
frettolosamente. Adesso giriamo con più calma
per il bel centro storico. Abbiamo incrociato
un'altra volta il Cammino.
Ci fermiamo a Les
Eyzies-de-Tayac a prenotare la visita
di Lascaux (è necessario); il grazioso paese è
un po' il centro museale delle grotte della zona
e qui c'è la “mediateca”: chi come noi non è
capace di operare da sé, trova il modo di
prenotare al computer, cortesemente assistito
dal paziente personale. Siamo entrati nella
boscosa e zigzagante valle della Vézère, e le
attrazioni sono una in fila all'altra, a poca
distanza, tutte sul tema dei cavernicoli. Non
mancano i “parchi a tema”, forse un po' in stile
Disneyland, ma era inevitabile. Si possono
visitare insediamenti alla Madeleine,
fra i boschi, e alla Roque-Saint-Cristophe,
su una parete di roccia poi fortificata. Invece
Saint-Léon-sur-Vezère è un
bellissimo paesino medievale, con castello però
inaccessibile. Ci si può rifare col vicino
castello di Losse, affacciato
con una terrazza sul fiume.
All'ora stabilita eccoci alla
grotta di Lascaux-2, una
replica dell'originale, chiusa fin dal '63 per
bloccarne il degrado. Ci si deve accontentare
quindi
d'un surrogato, ma almeno è una replica
fedelissima, riprodotta al centimetro anche
nella ristrettezza: perciò si deve entrare una
trentina alla volta, e questo spiega la
difficoltà di prenotare anche in una struttura
nuova, che in teoria poteva anche essere
costruita più ampia. Ma ne è valsa la pena: le
pitture sono impressionanti. Lì vicino si
vede il padiglione d'ingresso dell'originale,
ben chiuso da una cancellata e ormai invaso
dalle erbacce. In realtà c'è anche il Lascaux-3,
che è una mostra itinerante (fino al 8-1-'23 si
trova al Muse di Trento, abbastanza a
tiro), ed il Lascaux-4, che è una specie di
laboratorio con attrazioni interattive d'ogni
genere e si trova alla base della stessa collina
delle due grotte.
Nel viaggio verso Moissac
incontriamo il castello di Bonaguil
che si presenta scenograficamente appollaiato su
un dirupo. È un castello medievale in piena
regola e non una dimora rinascimentale come più
spesso succede. Altra scoperta dell'origine
d'una parola: la casamatta viene dallo
spagnolo “casa donde se mata”, la casa dove si
uccide.
Procedendo a sud l'aspetto
dei paesi diventa via via più “mediterraneo” ed
i tetti sono sempre più a tegole e sempre meno
di ardesia.
L'abbazia di St. Pierre a
Moissac è famosa per il portale
romanico della chiesa e per il chiostro. Peccato
che il complesso sia sfiorato dalla ferrovia;
non solo è fastidioso il passaggio dei treni (è
una linea importante e ne passano molti), ma
osservando il plastico che riproduce il massimo
sviluppo, si nota che a suo tempo i costruttori
non si sono fatti scrupolo di abbattere il
refettorio per farla passare. Come a Chiaravalle,
alla periferia milanese, dove non c'era neanche
la scusa della collina incombente. Allora era
normale sacrificare antiche strutture al dio del
progresso. Dimenticavo: rieccoci sul famoso
Cammino.
Cahors
occupa il centro di una delle numerose anse del
fiume Lot, a forma di “U” allungata. La maggiore
attrattiva è lo scenografico e turrito Pont
Valentré. Un particolare che colpisce sono le
scale d'accesso alle torri, strette e prive
ancora oggi di qualunque ringhiera, e
nemmeno segnalate; e poi nei luoghi pubblici ci
sono i cartelli per i pavimenti scivolosi!
Inutile dire che anche questo ponte è sul
Cammino. L'unico suo neo è di trovarsi sul ramo
ovest della U, dalla parte “sbagliata” della
città: infatti finisce in una zona del tutto
anonima ed insignificante, mentre il centro
storico, che merita, si affaccia sul ramo
opposto del fiume, dove in compenso c'è un ponte
moderno.
Avevamo già visto in fretta
anche Rocamadour, e adesso
rimediamo. La posizione è notevolissima, sul
fianco d'un precipizio verticale e con chiese e
basiliche sovrapposte. Un paio di ascensori (uno
è in pratica una funicolare su piano inclinato)
risolvono i problemi di fiatone, specie se sotto
il sole. Tutto l'assieme ha un po'
l'inconveniente del villaggio esclusivamente
turistico, e tanto per cambiare è sul Cammino.
Se si arriva da nord a
Millau, la città si presenta
con lo sfondo dell'elegante viadotto
autostradale, che non la sfigura, anzi ne
costituisce un'attrattiva. È la capitale del
guanto, e ha diverse piccole curiosità: una
torre multipla, quadrata e massiccia sotto,
ottagonale e slanciata sopra, con attaccata
un'altra cilindrica e sottile; una porta con
casa incorporata, ed un bel ponte mozzato sul
Tarn.
Torniamo verso l'Italia
attraverso le Gorges du Tarn,
una gola lunga oltre 50 km e che garantisce
continui scorci pittoreschi. Se vi si arriva da
Rodez, come in un viaggio precedente, o
salendovi apposta, si raggiunge l'orlo
dell'altipiano circostante al Point Sublime,
con una vista grandiosa su questa immensa
spaccatura. Sorprende anche qualche microscopico
abitato sulla sponda opposta, come
Castelbouc, con case in roccia dominate
da un castello in rovina. Sul fiume c'è un
traffico intenso di canoe; e sulla strada un
corrispondente traffico di furgoni e camioncini
col rimorchio per caricarle, che salgono carichi
e scendono vuoti per andare a riprenderle:
infatti in canoa si va per principio solo in
discesa. Di conseguenza l'automobilista deve
vedersela con questi mezzi, con le infinite
curve e le numerose strettoie, e con le moto per
le quali questo percorso è invece una goduria.
Grignan è il
classico paese dominato dal suo bravo castello,
in mezzo ad amene colline. Questo castello è
stato ricostruito dalle rovine solo un secolo fa;
adesso fa la sua bella figura anche per i begli
arredi e i ricordi della sua illustre inquilina,
la scrittrice M.me de Sévigné, moglie del
castellano.
Una nota finale sul mangiare.
Dappertutto abbiamo trovato nei menu dei
ristoranti la mozzarella, la burrata, e nel
dessert, il tiramisù. In Francia è scoppiata la
mania di questi nostri prodotti e tutti ne vanno
matti: l'Italia è riuscita ad entrare nel
mercato alimentare francese sconfiggendo il
Camembert. Ho anche saputo di turisti francesi
che, arrivati in Italia, ordinavano il tiramisù
e si stupivano di non trovarlo sempre, avendo
dato per scontato che fosse diffuso come la
pizza.
15 settembre 2022 Giovanni
Saccarello
UN BELLISSIMO
ZIG-ZAG NEL CUORE
D’EUROPA
La partenza del nostro tour
–
durato circa due settimane - il giorno di
Ferragosto, dopo l’attraversamento
autostradale della Svizzera, è stata la Foresta
Nera. Un delizioso albergo a Dachsberg (Landgasthof
Klosterweiherhof,
www.klosterweiherhof.com
) ci ha accolto, di fronte a un
laghetto,
dove si può nuotare tra le anatre, in mezzo a
boschi di conifere, nella tranquillità più
totale. Una breve passeggiata su una stradina
nei pressi ci ha portato verso una miniera
risalente all’ ‘800 (la “Friedrich-August-Grube”),
dove si estraevano soprattutto minerali
contenenti nichel. Si può entrare liberamente
per un percorso di una decina di metri,
illuminato e in totale sicurezza. Alcuni
tabelloni esplicativi informano del fatto che si
tratta di un “parco giochi minerario” in una
riserva naturale: con scopi anche didattici, il
luogo si presta ad attività ludiche di vario
genere (pure musicali, con xilofoni un po’
particolari). Il giorno seguente il nostro
itinerario ha toccato la graziosa Todtnau, dove
una facile escursione di circa un’ora, su un
sentiero ad anello che parte dalla zona dietro
la chiesa (piazza del Mercato) e attraversa la
faggeta, conduce a una cascata, monumento
naturale tedesco dal 1987: qui chi soffre il
caldo può rinfrescarsi immergendosi in pozze
laterali, sui gradini di granito dei salti
d’acqua. Una sosta a Triberg ci ha poi
consentito di immergerci nell’atmosfera tipica
della Schwarzwald, circondati da negozi che
vendono migliaia di orologi a cucù di tutte le
dimensioni.
I
più belli costano almeno 2000-3000 euro, fino ad
arrivare a cifre davvero esorbitanti! Anche a
Triberg si trova una famosa cascata, ma per
vederla l’ingresso è a pagamento. Attraversando
villaggi e percorrendo la suggestiva strada
nella foresta siamo giunti a Freudenstadt (“Città
della gioia”): centro termale, è da visitare
soprattutto per la bellissima Marktplatz
–
la più grande della Germania- su cui si affaccia
l’imponente e interessante chiesa evangelica.
Fontane e fiori rendono lo spazio urbano molto
piacevole. Abbiamo trascorso la notte nella
vicina Baiersbronn, base di partenza per molte
escursioni (alloggio al Cafe Rundblick,
www.cafe-rundblick.de
), per ripartire la mattina alla volta di
Baden-Baden. Città molto elegante, circondata da
boschi, presenta un centro ricco di edifici in
stile neoclassico e attraversato dalla splendida
Lichtentaler Allee, un lunghissimo viale
alberato che costeggia il fiume Oos, con aiuole,
bordure fiorite e fontane. Il nome della città
richiama la sua storia di “capitale tedesca
delle terme”: le sue sorgenti erano note fin
dall’epoca romana. Nel 1838 fu aperto il
magnifico casinò frequentato dalla nobiltà
europea (Kurhaus), di cui si può visitare, a
pagamento, il Salone Rosso.
A una ventina di km
si raggiunge Rastatt, che vanta due bellissimi
castelli: uno nel cuore della città (Residenzschloss)
risalente all’inizio del ‘700, voluto dal
Margravio Luigi Guglielmo di Baden-Baden,
l’altro, a breve distanza, in un parco stupendo
(Schloss Favorite), residenza estiva fatta
erigere pochi anni dopo dalla vedova Sybilla di
Sassonia. Gli edifici, entrambi barocchi, hanno
appartamenti dagli arredi e decorazioni di gusto
raffinatissimo e meritano senz’altro una visita
(obbligatoriamente guidata).
Da Rastatt arrivare in
Francia, oltrepassando il Reno, è questione di
pochi
minuti d’auto: ed eccoci quindi nella
regione del Grand Est francese, direzione
Niederbronn-les-Bains, ai margini del Parco
Naturale Regionale dei Vosgi settentrionali.
Abbiamo pernottato in un convento di Oberbronn (Hôtellerie
du Couvent des Soeurs du Très Saint Sauveur,
www.maison-accueil-oberbronn.com
), una struttura davvero eccezionale anche per
l’ottimo rapporto qualità/prezzo. Una tranquilla
passeggiata serale ci ha portato ad ammirare le
bellissime case a graticcio del centro storico e
il cosiddetto “parco delle cicogne”, dove si
trovano
parecchi nidi di questi splendidi
uccelli, in cima ad alti pali opportunamente
predisposti. Tutta la zona è ambiente di
nidificazione di questi migratori, che sono
anche il simbolo dell’Alsazia. Il nostro viaggio
è proseguito facendo sosta alla Citadelle de
Bitche, vero capolavoro di arte militare:
ricostruita più volte fino alla struttura
definitiva, del XVIII secolo, la fortezza è
gigantesca ed è monumento storico dal 1979.
La visita è multimediale e molto interessante:
grazie a filmati proiettati in modo
suggestivo
nelle diverse sale, si rivive l’assedio di 230
giorni che seguì la dichiarazione di guerra del
19 luglio 1870 da parte della Francia contro la
Prussia. L’8 agosto seguente, le truppe
prussiane circondarono la Citadelle, che
occupava un sito strategico. L’eroica resistenza
si protrasse fino al 27 marzo 1871, ossia ben
più due mesi dopo l’armistizio del 18 gennaio e
la fine del Secondo impero di Napoleone III. Il
10 maggio il trattato di Francoforte segnò in
modo definitivo la sconfitta dei Francesi e la
costituzione dell’impero tedesco; Bitche tornò
alla Francia nel 1918.
Passando nuovamente il
confine e tornando in Germania, il nostro tour
non
poteva escludere Saarbrücken, città che subì
alterne vicende e fu contesa spesso tra i due
Paesi confinanti, anche perché “capitale” della
regione carbonifera tedesca. È attraversata dal
fiume Saar, affluente della Mosella, che a sua
volta si getta nel Reno a Coblenza. Nella piazza
omonima si erge solitaria la Ludwigskirche,
chiesa evangelica in stile barocco, a croce
greca,
ricostruita dopo il bombardamento del 5
ottobre 1944 e riportata alla bellezza
originaria. È il simbolo della città. Seguendo
l’autostrada siamo giunti facilmente a Treviri
(Trier), pernottando a poco più di 3 km dal
centro (Schroeders Wein-Style Hotel,
https://www.schroedershotels.com
) e dalla famosa Porta Nigra. Fondata dai Romani
sotto Augusto (16 a.C), per la sua magnifica
posizione ebbe ruoli privilegiati sia nel
periodo di Diocleziano che nei secoli
successivi,
diventando importante centro commerciale e sede
vescovile in epoca carolingia, vivendo fasti per
tutto il medioevo e oltre. Fu pesantemente
bombardata nella II guerra mondiale ed è in gran
parte ricostruita. Bellissima la Hauptmarkt, la
piazza del Mercato; il Duomo di San Pietro e
l’adiacente Liebfrauenkirche, dalle forme
romaniche e gotiche, sono di grande interesse e
hanno interni suggestivi, ricchi di opere d’arte.
In Brückenstrasse si trova la casa in cui nacque,
il 5 maggio 1818, Karl Marx. Trasformata in
casa-museo, si possono osservare arredi,
documenti, testi, disegni, dipinti, statue,
fotografie, che servono al visitatore per
ripercorrere le tappe fondamentali della vita
del grandissimo Marx-filosofo-sociologo-economista-giornalista.
Ci si può accomodare, per un dialogo immaginario,
davanti alla poltrona di velluto su cui sedeva
per il suo lavoro e le sue letture e su cui morì,
a Londra, il 14 marzo 1883. La casa fu
confiscata dai nazisti nel 1933 e restò una loro
sede fino al 1945.
Sulla strada per Bonn, il
giorno seguente, ci siamo fermati all’abbazia
cistercense di Himmerod: una sosta piacevole e
interessante, come quella successiva alla
Meerfeld Maar, tranquillo lago in un parco
naturale. Bonn ci è piaciuta per l’atmosfera
gradevole, di città moderna ma con ritmi non
frenetici, con un bel centro storico curato. La
scelta dell’albergo è caduta sull’Hotel Baden (
https://www.hotel-baden.de)
a pochi minuti a piedi dalla bella casa natale
di Beethoven (Bonngasse 20):
qui il geniale
compositore nacque nel dicembre 1770. Ci si
immerge nella sua biografia e nelle sue opere;
in una saletta si possono ascoltare, con cuffie,
anche brani registrati di sinfonie e concerti.
La casa-museo è utilizzata anche per eventi
musicali, mostre, didattica della musica.
Passeggiare nel centro ci ha portato a vedere il
Münster St. Martin, chiesa tardoromanica
ricostruita, e il Rathaus sulla piazza del
Mercato; bello anche il lungofiume, con panorami
sul Reno; uscendo dalla città abbiamo invece
visitato il Kunstmuseum (dei
primi anni ‘90),
che raccoglie opere del pittore espressionista
August Macke e pezzi interessanti di arte
contemporanea, in collezioni permanenti e mostre
temporanee. Molto particolari gli allestimenti
esterni, con alte strutture azzurre a forma di
cono, su una terrazza panoramica, dalla quale si
può scendere utilizzando un lungo scivolo di
metallo. Raggiungibile in auto in circa mezz’ora,
data la vicinanza, è la magnifica Colonia
(Köln). Abbiamo trovato qualche difficoltà nella
ricerca dell’alloggio, dati i prezzi davvero
alti e volendo trascorrervi almeno due notti:
alla fine siamo riusciti a trovare una
sistemazione nei pressi del centro, davanti alla
chiesa di san Maurizio ( Mauritius Hotel &
Therme,
https://mauritius-ht.de
), in un “albergo benessere” con sauna, piscina
e spa (a pagamento), di cui però non abbiamo
usufruito, e con terrazza-solarium panoramica.
La vicinanza al centro ci ha consentito di
raggiungerlo comodamente a piedi, dopo aver
parcheggiato l’auto
–
non senza difficoltà! - nelle vie limitrofe,
sfruttando anche la gratuità della domenica. È
da sottolineare che il costo dei parcheggi su
strada, nei giorni feriali, è molto alto, e
risulta più conveniente lasciare l’auto in
quelli privati. La città è senza dubbio stupenda,
piena di vita, dinamica, ricca di musei,
monumenti, ristoranti e negozi, e percorrerla a
piedi è un vero piacere.
La cattedrale gotica
(Dom), altissima -le due torri raggiungono i 157
m- appare maestosa e incredibile anche a chi
dovesse giungere a Colonia in treno, dato che la
stazione centrale è proprio, curiosamente,
dietro di essa. Patrimonio dell’UNESCO,
costruita in ben 632 anni (dal 1248 al 1880),
con pietre calcaree e basalto, che ne danno un
aspetto scuro e annerito, presenta guglie,
pinnacoli, audaci archi rampanti, vetrate
preziose; all’interno, nelle navate alte 40 m,
il coro, gli affreschi, le tombe, le statue,
rendono la visita affascinante. L’abside è
rivolta al Reno e al lungo ponte, sia
ferroviario che pedonale, che lo attraversa.
Camminare nei quartieri lungo il fiume, tra il
verde, le fontane e i localini per un aperitivo
o un’ottima birra con Bratwurst und kartoffeln,
è un must per chi visita Colonia. Tra i musei,
c’è solo l’imbarazzo della scelta (occorre però
considerare che lunedì è giorno di chiusura per
la maggior parte) . Noi abbiamo optato in primis
per il meraviglioso Wallraf-Richartz-Museum-Fondazione
Corboud. La collezione di dipinti vanta
capolavori del Medioevo tedesco, fiammingo,
italiano e opere straordinarie dei secoli
successivi. Il Museum Ludwig, moderno, ospita
invece opere del ‘900, in particolare
statunitensi, ma anche britanniche, russe,
tedesche; surrealismo, dadaismo, espressionismo
sono correnti molto ben rappresentate: anche in
questo caso è una meta obbligata. Siamo riusciti
pure a visitare il museo archeologico (Römisch-Germanisches
Museum), trasferito in tempi recenti in
Cäcilienstrasse 46, davanti al Museum Schnütgen,
che invece abbiamo purtroppo dovuto tralasciare
per ragioni di tempo. Lo spazio espositivo è
ridotto ed è ancora in fase di allestimento:
molto interessanti i reperti romani dell’epoca
di Colonia Agrippina, fondata precedentemente (I
sec. a.C.) con il nome di Ara Ubiorum, sulla
sponda sinistra del Reno, e luogo di nascita di
Agrippina minore, moglie dell’imperatore
Claudio, nonché figlia di Germanico e madre di
Nerone.
Il nostro itinerario ci ha
quindi condotto ad Aquisgrana (Aachen), dove
abbiamo pernottato all’Hotel Platinium ( http://platiniumhotel.de
), in una
posizione che ci ha consentito di
raggiungere il centro a piedi senza fatica.
Fondata dai Romani con il nome di Aquae Granni,
in omaggio alle sue benefiche sorgenti termali
di acquee sulfuree e al dio celtico della
salute, Granno, la città conserva un certo
fascino che le viene soprattutto dalla sua
storia medioevale. Patrimonio dell’Umanità è il
duomo, che incorpora la Cappella Palatina voluta
da Carlo Magno, che qui fu ebbe la tomba; vi fu
aggiunto un presbiterio gotico e rimase sede
dell’incoronazione di trenta re del Sacro Romano
Impero, dal 936 al 1531. Un enorme lampadario
circolare in rame, a forma di corona, pende al
centro della cappella, dal soffitto riccamente
decorato: voluto da Federico Barbarossa come
simbolo della Gerusalemme celeste, risale al
1160. L’altare, il pulpito, i sarcofagi in oro
sono stupefacenti. Il vicino museo del duomo,
con un preziosissimo tesoro che comprende
eccezionali reliquiari, compreso quello di Carlo
Magno, capolavori di oreficeria medioevale,
dipinti e oggetti in avorio scolpito, è
assolutamente da visitare.
Dalla bella Aquisgrana ci è
stato semplice scegliere come proseguire il
viaggio: trovandoci proprio al confine con i
Paesi Bassi e con il Belgio, abbiamo deciso di
varcare quello olandese e, dopo un passaggio
nella graziosa Valkenburg e una tappa
particolare al Drielandenpunt (la triplice
frontiera) in mezzo ai boschi, sul Vaalsenberg,
siamo giunti a Maastricht. È
una città moderna,
sede universitaria e capoluogo della Provincia
del Limburgo, attraversata dal fiume Mosa (che
finisce per unirsi al Reno nel delta sul Mare
del Nord): incantevole, ben organizzata, con
angoli pieni di fiori e un bel paesaggio intorno.
Qui, il 7 febbraio 1992, trent’anni fa, fu
firmato il famoso Trattato dell’Unione Europea
che ne fissava i cosiddetti Tre Pilastri e
forniva criteri e parametri per entrarvi.
All’epoca i Paesi dell’Unione erano dodici, e
ora sono più che raddoppiati; e circa una decina
di Stati potrebbero presto aggiungersi, anche se
la situazione attuale è piuttosto critica e
l’Unione sembra a volte vacillare… A Maastricht
abbiamo visitato la basilica romanica di San
Servazio, vescovo del IV sec., patrono della
città, con un bel chiostro, una cripta e un
prezioso tesoro, e la basilica di Nostra
Signora. È stata poi una curiosa esperienza
pranzare in una chiesa gotica sconsacrata,
trasformata in una grande libreria (Boekhandel
Dominicanen), considerata una delle più belle
del mondo! Non abbiamo comunque dormito nei
Paesi Bassi: passando il vicinissimo confine con
il Belgio, con una breve tappa alla cattedrale
gotica di San Paolo, nel centro di Liegi, (un po’
deturpata da numerosi cantieri stradali ed
edilizi, forse resi necessari dai danni subìti
nel corso dell’alluvione del luglio 2021 per
l’esondazione della Mosa), già visitata alcuni
anni fa, ci siamo recati a Verviers (Hotel des
Ardennes,
https://hotelverviers.com
). La città, attraversata dal fiume Vesdre,
affluente della Mosa, ci è parsa un po’
spettrale: molti negozi chiusi definitivamente,
strade deserte. È stata purtroppo una delle
città più devastate dall’alluvione già citata,
che provocò più di cento morti tra Germania,
Belgio, Francia, a causa di piogge
abbondantissime e impressionanti bombe d’acqua.
Il nostro breve giro della
Vallonia ha poi compreso Theux, con
un’interessante chiesa fortificata, e Spa,
rinomato ed elegante centro termale che ha dato
il nome ai centri benessere di tutto il mondo.
Belle fontane ottocentesche in bronzo consentono
al visitatore di dissetarsi; giardini dai
perfetti prati all’inglese e aiuole dai mille
colori appagano la vista. E non poteva mancare
un casinò! L’ultima nostra tappa belga ha
riguardato Eupen e il suo lago artificiale
creato da un’imponente diga sul Vesdre, in mezzo
ai boschi. Ed eccoci subito di nuovo in
Germania: non potevamo mancare
Monschau,
graziosissima cittadina dominata da un castello,
nella valle del fiume Rur, a breve distanza dal
Nationalpark Eifel, zona di antichi vulcani. Il
pernottamento più a sud, ad Enkirch (Landgasthof
zur Sonne,
https://www.zur-sonne-enkirch.de
) ci ha permesso di ammirare ancora splendide
case a graticcio e romantici panorami sulla
Mosella, nonché di gustare gli ottimi vini
locali. La zona è infatti coltivata soprattutto
a vigneti ed è famosa per la sua produzione
vinicola. Anche la vicina Traben-Trarbach merita
una visita: si tratta in realtà di due vivaci e
interessanti centri abitati situati sulle rive
opposte del fiume e collegati da un ponte.
Scendendo poi verso Saarbrücken abbiamo dedicato
quasi tre ore a un patrimonio mondiale UNESCO di
archeologia industriale: si tratta
dell’acciaieria di Völklingen (Völklinger Hütte),
uno stabilimento siderurgico gigantesco e
perfettamente conservato, costruito a partire
dal 1873 e chiuso nel 1986. La visita lascia a
bocca aperta: si inizia da un enorme salone, con
i macchinari d’epoca, dove decine e decine di
schermi giganti proiettano video musicali (le
cuffie in dotazione si attivano quando si passa
davanti allo schermo), scelti tra i più famosi;
dopo questa immersione nella musica rock e pop e
nei colori abbaglianti dei filmati, si seguono
percorsi che portano a vedere la torre
dell’acqua, risalente al 1917, tra le più grandi
al mondo, le fornaci, gli impianti di
sinterizzazione, le pompe, i siti di stoccaggio
del carbone e dei minerali ferrosi, fino a
salire su piattaforme a 45 m di altezza, per
ammirare tutto il complesso. Una meraviglia!
Abbiamo poi concluso la giornata nell’hotel più
bello di tutto il nostro viaggio, dall’arredo a
tratti stupefacente (Hotel Restaurant Rössle in
Dobel,
www.roessle-dobel.de
), in un paese di poco più di 2000 abitanti,
base di partenza di gradevoli passeggiate nella
Foresta Nera settentrionale, dove sembra di
poter incontrare, prima o poi, i sette nani o
Biancaneve... Il nostro “zig-zag” ci ha poi
condotto a rivedere città da noi precedentemente
già visitate, prima fra tutte Tubinga, deliziosa
città universitaria sul fiume Neckar su cui si
affacciano affascinanti case a graticcio. Siamo
saliti in cima alla torre campanaria della
splendida Collegiata di san Giorgio, al cui
interno si trovano opere d’arte e sepolcri,
soprattutto cinquecenteschi, dei duchi del
Wüttemberg, per ammirare il panorama. Lungo il
tragitto abbiamo raggiunto il castello di
Hohenzollern, in cima a un rilievo boscoso a
circa 850 m di altezza. È considerato uno dei
castelli più belli della Germania, anche se in
realtà dell’edificio originario medioevale resta
solo una cappella: tutto il resto è una
ricostruzione ottocentesca. Appare certo
fiabesco e merita una passeggiata lungo il
sentiero-scaletta tra gli alberi; è previsto un
servizio navetta,dal parcheggio sottostante, per
chi acquista il biglietto. È questo il punto
dolente: l’ingresso costa ben 22 euro a persona!
Abbiamo incontrato anche turisti tedeschi che si
lamentavano del prezzo eccessivo... Ci siamo
dunque limitati a guardare il castello
dall’esterno. Dopo una sosta
–
e ottima cena! - a Bonndorf im Schwarzwald (Gasthaus
zum Kranz,
www.kranz-bonndorf.de
) eccoci a Friburgo in Brisgovia, dove si erge,
in una grande piazza, il magnifico Münster; poi
a Breisach, sede di un’interessante abbazia
arroccata; e infine, tornando in Francia,
abbiamo rivisto con piacere la bellissima
Colmar, fiore all’occhiello dell’Alsazia, e
Mulhouse, per il nostro ultimo pernottamento
(Brit Hotel Mulhouse Centre,
https://mulhouse.brithotel.com
). Sulla strada del ritorno, a Basilea, non
potevamo perdere un altro triplice confine:
quello di Francia-Germania-Svizzera, il
Dreiländereck, sul Reno, contrassegnato da un
alto pinnacolo con le tre bandiere. E qui, in un
punto geografico dove il principio
d’indeterminazione sembra farsi realtà, abbiamo
considerato concluso il nostro fantastico
viaggio.
Anna Busca, 6 settembre 2022
LUGLIO 2022
UN VIAGGIO
NEL SOLE: NAPOLI
ED ISCHIA 2022
di Anna
Busca
Dieci giorni di vacanza
organizzati all’ultimo momento a metà luglio
possono dare grandi piaceri e soddisfazioni, se
le mete scelte consentono un magnifico mix di
arte, cultura, bellezze naturali, nuotate in
acque cristalline ed elioterapia dall’alba al
tramonto. Immergendoci in paesaggi incantevoli,
ammirando capolavori di pittura e scultura,
compiendo veri viaggi nel tempo antico, siamo
riusciti a caricarci di energie positive,
utilissime come non mai per affrontare i tempi
difficili che stiamo vivendo. Non un’evasione
dai problemi, quindi, ma una necessaria
rigenerazione personale.
NAPOLI
Il treno ad alta velocità
Italo ci ha consentito di raggiungere Napoli in
neppure quattro ore e mezza, partendo alle 10.26
da Milano Rogoredo e arrivando a Napoli Centrale
alle 14.53. Puntualità e grande comodità rendono
questo mezzo davvero validissimo, anche per il
risparmio di tempo e denaro rispetto ad
automobile e aereo. A piedi, con una bella
passeggiata da piazza Garibaldi fino a via dei
Tribunali (uno dei decumani, praticamente
parallelo a Spaccanapoli), abbiamo raggiunto
l’albergo dove avevamo prenotato tre notti (con
colazione inclusa): l’Hotel Neapolis in via
Francesco del Giudice 13 (tel.0814420815), nel
cuore del centro storico, al terzo piano di un
palazzo (c’è l’ascensore!) da cui si gode una
bella vista della città. La posizione eccellente
e l’ottimo rapporto qualità/prezzo connotano
questo indirizzo, davvero consigliabile per chi
desidera visitare i luoghi irrinunciabili di
Napoli senza usare mezzi pubblici, ma
semplicemente camminando. E le mete “irrinunciabili”
sono tante: ma se si resta a Napoli solo tre
giorni certamente occorre compiere una selezione,
anche in base agli orari di apertura di chiese e
musei. La nostra prima visita ha riguardato il
Museo di Arte contemporanea Donnaregina (MADRE),
in un bell’edificio di via Settembrini 79 (chiuso
il martedì). La collezione permanente include
opere di Mimmo Paladino, Jeff Koons, Rebecca
Horn, Lawrence Carroll; interessanti anche le
mostre, in particolare “Clement Cogitore,
Ferdinandea” (fino al 12 settembre) con lavori (anche
brevi filmati) ispirati alle vicende
dell’omonima isola vulcanica, emersa nel canale
di Sicilia nel 1831, fino a 65 m sopra il
livello del mare, e poi sprofondata sei mesi
dopo. In quel breve lasso di tempo fu contesa
dal Regno delle Due Sicilie, dalla Francia e
dalla Gran Bretagna, che intendevano
colonizzarla…
Vicino all’albergo, in via
dei Tribunali 253, ecco una meta st raordinaria:
il Pio Monte della Misericordia, istituzione
cattolica fondata nel 1602 da sette giovani
nobili napoletani che si dedicavano alla
beneficenza. Qui si visita una preziosa
Quadreria, che conserva molti dipinti di
Francesco De Mura e opere dal Cinquecento
all’Ottocento; la chiesa a pianta ottagonale ha
una bella cupola e diverse cappelle, con opere
eccellenti, come la “Deposizione di Cristo”
(1671) di Luca Giordano; nel presbiterio, dietro
un altare barocco, ecco il capolavoro di
Caravaggio “Sette opere di misericordia”
(1606-1607), la cui composizione dinamica e
drammatica, che emerge dall’oscurità, senza un
fulcro centrale, rappresentò un punto di svolta
per tutta la pittura dell’epoca (purtroppo una
croce dell’altare si sovrappone un po’ alla
grande tela).
Davanti al Pio Monte si trova
la Guglia di San Gennaro, opera seicentesca in
marmo, un ex voto offerto dai napoletani in
occasione dell’eruzione del Vesuvio del 1631; e
oltre si vede parte della fiancata laterale
destra del Duomo, dedicato a Maria Assunta, con
un ingresso secondario. Entrando nella grande
cattedrale ci si rende conto delle modifiche
subite nel corso dei secoli, fin dal periodo
della sua fondazione in epoca angioina (XIII-XIV
secolo). Un’ampia cappella (Santa Restituta),
che si apre nella navata sinistra, era in
origine una basilica paleocristiana, incorporata
nell’edificio; riccamente decorata nel XVII
secolo, ha un bellissimo mosaico trecentesco.
Sul lato destro, con ingresso a pagamento,
l’antico Battistero di san Giovanni in Fonte del
IV-V secolo rivela altri splendidi mosaici, per
lo più frammentati, dal colore blu predominante
. La cappella del Tesoro di san Gennaro, sulla
navata destra è meta di veri e propri
pellegrinaggi, perché conserva un
busto-reliquiario del santo, risalente al 1305-
a mille anni dalla sua decapitazione, risalente
appunto al 305 d.C. sotto Diocleziano - in oro e
argento, opera di tre maestri orafi provenzali
su commissione di Carlo II d’Angiò. La testa del
busto, con le fattezze dell’arcivescovo Domont,
all’epoca potentissimo, ha una calotta mobile, e
al suo interno si trovano alcune ossa craniche.
Nella cappella sono anche custodite due ampolle
sigillate, di cui una viene esposta dal vescovo
al pubblico di fedeli il 19 settembre, festa del
patrono, e portata in processione; il contenuto
è un miscuglio rossastro, da sempre considerato
“sangue coagulato di san Gennaro”, la cui “liquefazione
miracolosa” sarebbe segno di buoni auspici per
la città. Se invece tale fenomeno non avviene,
allora è interpretato come presagio di sventure...
Un vero invito, purtroppo, alla superstizione!
Occorre ricordare che un lavoro sperimentale di
alcuni ricercatori del CICAP, già trent’anni fa,
dimostrò che una semplice sospensione colloidale
di idrossido ferrico e ioni sodio e cloruro
(sale da cucina disciolto) ha colore, proprietà
e comportamento tissotropico analogo al
contenuto delle teche, passando da gel a sol e
viceversa, in base a movimenti subìti dal
contenitore…
Da ricordare che nel museo
adiacente, al n.149 di via Duomo
–
aperto al pubblico dal 2003 - è esposto il
preziosissimo tesoro di san Gennaro, dal valore
inestimabile, frutto di cospicue donazioni di
monarchi e famiglie aristocratiche: noi lo
ammireremo la prossima volta!
In via dei Tribunali 316 si
entra in San Lorenzo Maggiore, complesso
monumentale fatto erigere da Carlo I d’Angiò nel
1265; bellissima l’abside a nove cappelle
–
qui si ammirano il sepolcro di Caterina d’Austria,
del 1323 circa, e gli affreschi di un allievo di
Giotto . Magnifico anche il chiostro, che ha
accanto un’area
di scavi archeologici che hanno messo in luce
resti dell’antica
città greco-romana.
Abbiamo poi dedicato quasi
un’intera giornata alla Reggia-Museo e al Bosco
Reale di Capodimonte (chiusura: mercoledì),
percorrendo a piedi,
all’andata, un itinerario
di circa 2 km passando per via Santa Teresa degli Scalzi e corso Amedeo di Savoia, fino alla
scalinata che conduce in alto, alla Porta
Piccola, uno degli ingressi. Il Museo è un
bellissimo edificio color rosso-mattone )
costruito a partire dal 1738 per volere di Carlo
di Borbone,
che vi ospitò la collezione di opere
d’arte della madre Elisabetta Farnese; è
circondato da prati all’inglese e palme di
notevole altezza; da un belvedere si gode un
panorama impagabile della città. Il Bosco è un
parco immenso, di
più di 120 ettari, originariamente pensato come
luogo di caccia, oggi meta di famiglie e
runners. La visita alla pinacoteca del museo
deve prevedere alcune ore e sarebbe impossibile,
in un articolo come
questo, enumerare e
descrivere i meravigliosi capolavori che vi si
possono ammirare (sfuggiti alla devastante
spoliazione napoleonica della collezione, che
portò purtroppo molte opere al Louvre e al Museo
di Belle Arti di Lione, dove si trovano tuttora).
Basti ricordare, tra i dipinti esposti, “La
flagellazione di Cristo” (1607-1608) del
Caravaggio , “Ritratto di Papa Paolo III con i
nipoti Alessandro e Ottavio Farnese” (1546) di
Tiziano, “Vergine con Bambino e due
angeli” (1468-1469) di Botticelli.
Indimenticabili anche i dipinti
di Ribera (“Sileno ebbro”), di Guido Reni (“Atalanta
e Ippomene”), di Rosso Fiorentino (“Ritratto di
gentiluomo”), e moltissimi altri... Colpisce la
famosa tela di Andy Warhol, “Vesuvius” (1985),
con il vulcano in eruzione, dai
colori accesi,
che è
diventato una sorta di icona mondiale. La
mostra monografica dedicata a Battistello
Caracciolo (1578-1635), che resterà aperta fino
al 2 ottobre, ha
poi rivelato le opere più belle di questo
pittore napoletano, detto “il patriarca bronzeo
dei Caravaggeschi”. Imperdibile! Splendido anche
l’appartamento
reale, con sale riccamente ed
elegantemente decorate che nulla hanno da
invidiare a Versailles; una magnifica collezione
delle famose statuine di porcellana e di piatti
e ceramiche di grande bellezza lascia davvero
incantati .
Usciti a malincuore dalla
Reggia-Museo, lungo la strada in discesa ci
siamo fermati alle
Catacombe
di san Gennaro (ancora lui!). Sviluppatesi su
due livelli, soprattutto a partire dal III
secolo, accolsero le spoglie del primo patrono
della città
–
sant’Agrippino
–
e in seguito quelle di san Gennaro, di cui resta
quello che viene considerato come il suo più
antico ritratto, ossia un affresco del V secolo,
su una parete, tra due figure femminili. La
giovane guida parla di un Gennaro probabilmente
africano, dalla pelle scura (come appare
nell’affresco e anche in un celebre dipinto di
Mattia Preti avente come tema il suo martirio);
il nome stesso sarebbe in realtà un appellativo
derivato da Ianuarius, legato etimologicamente
al dio romano Ianus. La visita è davvero
interessante. Sulla via del
ritorno in albergo abbiamo avuto modo di
attraversare il famoso rione Sanità, una vera “città
nella città”, con la bella chiesa di Santa
Maria.
A due passi dall’hotel, non
potevamo mancare la Cappella Sansevero, voluta
dal principe Raimondo de Sangro (1710-1771),
figura incredibile di inventore geniale, massone,
dedito alla letteratura come all’alchimia, alla
filosofia come all’ingegneria idraulica,
all’architettura, alle arti militari. Fin dagli
ultimi anni del ‘500 esisteva una cappelletta
costruita su un luogo considerato miracoloso, e
la famiglia dei de Sangro, principi di Sansevero,
aveva cominciato, nel ‘600, modificandola, a
utilizzarla come tomba di famiglia: si trovava
infatti proprio adiacente al loro palazzo.
Raimondo, nel 1749, decise di ampliarla e di
renderla una sorta di tempio, con sculture e
decorazioni di grande pregio, che la rendono un
vero gioiello d’arte. Tra queste, il famosissimo
e straordinario Cristo velato di Giuseppe
Sammartino (1753), invidiato anche da Antonio
Canova. Meravigliose le statue della Pudicizia,
di Antonio Corradini, e del Disinganno, di
Francesco Queirolo.
Poco oltre, un’altra meta
imperdibile: il Complesso Monumentale di
Santa
Chiara, costituito da una chiesa e un grande
monastero, costruito nel 1310 per volontà di
Roberto d’Angiò e della moglie Sancia di Maiorca.
Purtroppo la chiesa
–
che era stato modificata nel
‘700
in forme barocche
–
fu distrutta da un bombardamento aereo
statunitense il 4 agosto 1943; fu poi
ricostruita nell’originario
stile gotico. Il chiostro, trasformato tra il
1739 e il 1742, è bellissimo: pilastri e sedili
maiolicati, con festoni vegetali e scene di vita
quotidiana, soprattutto di color giallo, verde,
azzurro, blu, sono disposti in ordine geometrico
nel giardino, circondato da un porticato che
presenta affreschi del ‘600. E’ un luogo davvero
stupendo .
Un altro complesso
monumentale da non mancare è Sant’Anna dei
Lombardi, in piazza Monteoliveto, nei pressi
della bella via Toledo. Qui i capolavori sono la
sagrestia, dipinta da Giorgio Vasari ,
e il “Compianto del Cristo morto”, opera
straordinaria in terracotta di Guido Mazzoni
(1492), con otto figure a grandezza naturale .
Un giro più ampio della città
ci ha portato a vedere San Gregorio Armeno , il Maschio Angioino (Castel Nuovo), ora in
fase di restauro, la vasta e splendida piazza
del Plebiscito, con la Basilica di San Francesco
di Paola e Palazzo Reale, la Galleria Umberto I, il Teatro San Carlo, piazza Dante. Abbiamo preso
la metropolitana alla stazione Toledo per
ammirarne la scenografica decorazione di William
Kentridge e Bob Wilson (2013): sembra di
immergersi nelle acque blu del golfo di Napoli!
Purtroppo la nostra necessaria selezione ha
escluso il Vomero, zona notevolissima per musei
e punti panoramici: torneremo senz’altro per
esplorarla.
 Una meta che abbiamo
considerato imperdibile è stata il Museo
Archeologico Nazionale, certamente uno dei più
importanti al mondo . Vi abbiamo
dedicato una mattina intera, ma in effetti
merita molte più visite, a settori, su diversi
giorni: troppo vasta e preziosa la sua
collezione di reperti per osservarla (e conservarla nella memoria) in un’unica occasione.
Incredibile l’esposizione degli affreschi e dei
mosaici di Pompei, insieme alla
famosa anfora vinaria in v etro-cammeo; e
altrettanto stupefacente la parte dedicata alla
scultura
greco-romana, con capolavori come il
Toro Farnese e l’Ercole Farnese ritrovati nelle Terme di Caracalla.
La nostra visita si è in
realtà conclusa il giorno del rientro a Milano,
quando siamo tornati, a piedi, dal porto alla
Stazione Centrale, passando per una piazza
storica, piazza del Mercato. La piazza è molto
ampia: noi l’abbiamo vista completamente deserta,
nella calura estiva, e questo forse ha
influenzato la nostra impressione, che è stata,
ahimè, negativa. Ci è parsa trascurata, con
rifiuti qua e là e chiese in fase di
ristrutturazione ma abbandonate; molti gli
edifici fatiscenti intorno. Insomma, il degrado
è evidente . E pensare che in questo
luogo si sono vissuti episodi importanti per i
napoletani: la decapitazione del giovanissimo
Corradino di Svevia, l’ultimo degli Hohenstaufen
regnanti, sconfitto dall’esercito angioino nella
battaglia di Tagliacozzo (1268), la rivolta di
Masaniello (1647), le esecuzioni capitali di
coloro
–
come il giurista Mario Pagano e la letterata
Eleonora Fonseca Pimentel - che avevano
sostenuto l’effimera
Repubblica Napoletana (1799), filofrancese e
antagonista dei Borbone; e nella vicina Basilica
del Carmine Maggiore, il cui campanile svetta
sulla piazza, si svolsero i funerali del mitico
e indimenticabile Totò, nel 1967.
ISCHIA
Dell’Arcipelago Campano, cui
appartengono Capri e Procida, Ischia è l’isola
maggiore, di circa 46 km2, con una popolazione
residente di 60.000 abitanti. E’ vulcanica,
dominata dal Monte Epomeo, alto 787 m, che è in
realtà ha origini anche tettoniche, in quanto
corrisponde al sollevamento di rocce vulcaniche
sotto la pressione del magma della camera
magmatica di un vulcano sottomarino quiescente.
Il monte si trova all’interno di una caldera,
quindi è un “blocco risorgente”, di
notevolissima altezza. L’ultima violenta
eruzione risale al febbraio del 1302 (eruzione
dell’Arso), ma la più imponente, responsabile
della formazione detta “Tufo Verde” e della
caldera, avvenne 55.000 anni fa. L’isola è
interessata da fenomeni sismici: nel 1883
Casamicciola fu distrutta da un terremoto di
magnitudo 5.8 che provocò 2000 vittime
–
vi perirono anche i genitori e la sorella del
filosofo Benedetto Croce
–
e nel 2017 la stessa località ha subìto un
evento di magnitudo 4.0.
Dal Molo Beverello di Napoli –
praticamente davanti al Maschio Angioino - con
un aliscafo dell’Alilauro,
siamo arrivati a Forìo, sulla costa occidentale
dell’isola, in poco più di un’ora, partendo alle
11.20 e sbarcando, dopo una bella traversata,
alle 12.35. Dal porticciolo, un autobus della
linea CS (Circolare Sinistra) ci ha poi portato
in una quindicina di minuti in prossimità
dell’hotel che avevamo prenotato, il
Parco Maria
Terme di Cuotto (info@parcomaria.it). Vi abbiamo
trascorso una settimana splendida, all’insegna
del relax: l’hotel è costituito da edifici
immersi in un grande parco molto curato; ha tre
ampie piscine termali, a diverse temperature, un
centro benessere, un ristorante all’aperto dove
si possono gustare ottimi piatti ( a scelta tra
quattro opzioni del menù). Consigliabile la
mezza pensione! La nostra camera, molto spaziosa,
si affacciava sulla Baia di Citara: la vista del
tramonto è impagabile .
Ogni giorno una
navetta gratuita porta gli ospiti alla spiaggia,
una delle più belle dell’isola. Si può anche
scendere a piedi percorrendo la strada
–
un po’
trafficata
–
in neppure 20 minuti, però la salita, al ritorno,
risulta certamente più faticosa. La spiaggia
sabbiosa ha una parte libera, un po’ in pendenza,
adiacente ai famosi Giardini Poseidon - un
complesso di una ventina di vasche termali
all’interno di un parco, con lido privato, dove
però non siamo entrati in quanto il costo del
biglietto d’ingresso, 40 euro a persona (45 ad
agosto), ci è parso troppo alto. Il mare è
bellissimo, abbiamo sempre trovato acque limpide,
di un bel colore verde-azzurro (meglio andare la
mattina per evitare l’affollamento).
Con l’abbonamento settimanale
alle linee di autobus ischitane (14.50 euro),
acquistato in tabaccheria, abbiamo potuto girare
l’isola con grande facilità e un notevole
risparmio. Una meta importante è stata il
Castello Aragonese, a Ischia Ponte, a pochi
minuti di autobus (linea 7) dalla piazza di
Ischia Porto che funge da capolinea.
Si tratta
di una fortezza costruita su un
isolotto, che fu collegato all’isola maggiore
nel XV secolo da un ponte di legno, poi
sostituito da uno in pietra. Le origini sono
antiche: la prima rocca risale addirittura al V
sec.a.C.: fu costruita dal greco siracusano
Gerone I accorso in difesa dei Cumani che
combattevano contro i Tirreni. Nei secoli
successivi fu utilizzata dai Romani e
continuamente rimaneggiata e ampliata; costituì
anche il rifugio di molti ischitani durante
l’eruzione del 1302, e servì loro anche per
proteggersi dagli attacchi dei pirati. Alla fine
del XVI secolo ospitava circa 2000 famiglie,
insieme al principe aragonese, con la sua
guarnigione, e molti religiosi in conventi,
chiese e abbazie. Nel ‘700 fu abbandonata dalla
maggior parte degli abitanti. Distrutta da un
bombardamento
inglese all’inizio dell’800, fu
poi trasformata in prigione. Venivano qui tenuti
segregati, in celle buie e malsane, gli
oppositori al regime borbonico. Fu Garibaldi,
nel 1860, a consentire la soppressione del
carcere politico; e l’anno successivo Ischia
entrò a far parte del Regno d’Italia.
Attraversata la galleria scavata nella roccia si
sale e si comincia la visita, che non può durare
meno di due ore. I percorsi e i luoghi
d’interesse sono ben segnalati: occorre comunque
avere calzature adeguate e scegliere ore non
assolate. I panorami che si godono
dal Sentiero del sole, tra splendida vegetazione
mediterranea, o dal Terrazzo degli ulivi e dal
Terrazzo dell’Immacolata, sono davvero
incantevoli Impressionante invece il
Cimitero delle monache: in un sotterraneo si
trovano ancora numerosi “scolatoi”, ossia
seggioloni in pietra in cui venivano collocati i
cadaveri delle religiose, che si decomponevano
rilasciando lentamente i liquidi in vasi
sottostanti. Gli scheletri poi venivano portati
nell’ossario. Era un luogo di preghiera: le
Clarisse vi si recavano regolarmente e dovevano
così ricordare l’inutilità del corpo, destinato
a corrompersi e disfarsi. Possiamo solo
immaginare l’orrendo lezzo che doveva connotare
questo luogo spaventoso, fonte sicura di
infezioni! Infatti spesso le povere monache
–
in genere sfortunate figlie primogenite di
famiglie nobili, chiuse in convento per motivi
ereditari
–
si ammalavano gravemente e raggiungevano presto
le consorelle.
Un ’altra
meta imperdibile di Ischia è senz’altro il
meraviglioso parco
denominato “Giardini La
Mortella”, poco a nord di Forìo (
https://visit.lamortella.org).
Qui vengono organizzate, in primavera-estate, rassegne di musica classica all’aperto (nel “Teatro
Greco”), in genere nel tardo pomeriggio, con
orchestre giovanili; nei week end si tengono, al
Museo, concerti di musica da camera. I giardini,
molto estesi e suddivisi in una parte “a valle”
e in una “in collina”, furono voluti nel 1956 da
Susana Gil Passo, di origine argentina, moglie
del compositore inglese William Walton; i
coniugi vissero a Ischia dal 1949 e le loro
ceneri sono custodite nel giardino, in luoghi
suggestivi dedicati alla loro memoria. I giardini inferiori furono progettati
dall’architetto paesaggista britannico Russell
Page, mentre quelli superiori devono la loro
struttura e composizione vegetale proprio a
Susana, vero genius loci, appassionata di
botanica, che introdusse molte piante tropicali.
Musica, arte e natura si fondono quindi in modo
armonioso, in uno scenario di grande bellezza,
tra fontane, piccole cascate, ruscelletti, nel
verde di palme, magnolie, papiri,
felci,
orchidee, strelitzie, punteggiato da colori
smaglianti di fiori disposti sapientemente lungo
il percorso. Serre e padiglioni,
come il Tempio del Sole, il Ninfeo, la Voliera,
arricchiscono la visita.
Tra i borghi visitati, ci ha
colpito in modo particolare Sant’Angelo, sia per
i
magnifici panorami sulla baia di Sorgeto e
sulle spiagge dei Maronti e delle Fumarole, che
per la piacevolissima ed elegante architettura
mediterranea del paese, con vicoli e piazzette
tra edifici bianchi
–
sembra di essere in Grecia - o colorati in modo
vivace. Ma i punti d’interesse
sono tanti: a Forìo, per esempio, è opportuno
salire alla Chiesa di Santa Maria del Soccorso,
a picco sul mare . Anche se l’edificio
originale del XIV secolo è stato sostituito da
uno più recente (1864), resta l’incanto del
luogo. E si prova subito il
forte desiderio di
tornare al più presto in questa magica isola, il
cui nome forse deriva proprio dallo spagnolo “La
Isla”, storpiato dai napoletani in “Iscla” e
quindi trasformato nel più eufonico “Ischia”.
Oppure il nome ha una derivazione greca e
significa “forza”, “fortezza inespugnabile”. O
ancora è legato a un osso del bacino, l’ischio,
e al mito dei Titani in lotta contro gli Dei
dell’Olimpo…
10 agosto 2022,
Anna Busca
SETTEMBRE 2021
CAVALCATA
APPENNINICA 2021 (Terza parte) di Anna Busca
Da Campobasso a Calitri
(Molise- Campania)
Ci sono stati segnalati due
luoghi interessanti nei pressi di Campobasso,
raggiungibili in breve tempo con l’auto: uno è
Ferrazzano, borgo arroccato, con un bel castello
di origine normanna, più volte rimaneggiato, e
con la chiesa di Santa Maria Assunta,
dall’interessante portale duecentesco, insieme a
un magnifico pulpito della stessa epoca;
la seconda meta è stata la chiesa di Santa Maria
della Strada, su un colle vicino a Matrice,
isolata e splendida basilica longobarda. La
leggenda vuole che l’edificio fosse costruito in
una sola notte dal mitico Re Bove, aiutato dal
diavolo… In realtà le origini di quello che è
considerato un gioiello del Romanico molisano
sono un po’ misteriose: la fondazione è
collocabile tra l’XI e il XII secolo, ma forse
risale a prima dell’anno 1000. Bellissimi i
bassorilievi che raffigurano immagini e
simbologie bibliche, tra cui il cavaliere
dell’Apocalisse, la città santa di Gerusalemme
(come donna dalla chioma che forma un fiume
dalle dodici anse), Giona inghiottito dal mostro...Ai
lati del rosone due teste di bovini (forse
associati alla leggenda di Re Bove) sembrano
saltar fuori dalla facciata con le zampe
anteriori protese. L’interno, a tre navate, ha
dodici colonne possenti, con capitelli decorati.
I dintorni hanno un notevole fascino: prati,
campi, un antico tratturo che collega il Molise
alla Puglia, qualche albero, tanto silenzio.
Luogo perfetto per la meditazione!
Una
terza meta, che abbiamo raggiunto in seguito
lungo la strada che ci portava da Campobasso a
Benevento, è stato il sito archeologico di
Sepino (Saepinum). Gli scavi, cominciati
nell’800 nella zona, già nota ma poco studiata,
riguardano un’area molto ampia, di circa 12
ettari, racchiusa da una cinta muraria con torri
e quattro porte ad arco (la cui costruzione,
risalente al periodo 2 a.C.-4 d.C., fu
finanziata dall’imperatore Tiberio e dal
fratello Druso) e hanno messo in luce i resti
della città
sannitica,
conquistata dai Romani nel III sec.a.C. e ben
sviluppatasi grazie a un fiorente commercio di
lana, tessuti, pellami. Si cammina su strade
lastricate, si entra nel vasto Foro e nella
basilica forense, si passa davanti alla fontana
del Grifo, si ammira il bellissimo teatro… qua e
là, case ristrutturate, di origine medioevale (una
di queste è sede di un piccolo museo, l’unica
parte che prevede un biglietto d’ingresso). La
visita è senz’altro imperdibile!
Lasciata la struggente Sepino,
giungiamo a Benevento per la nostra ottava tappa
(B&B Le Streghe). Non eravamo mai stati in
questa città campana, e ne siamo rimasti davvero
favorevolmente colpiti.
Il centro storico è
stupendo, ricchissimo di monumenti ed edifici di
grande interesse storico-artistico. Il complesso
di Santa Sofia è longobardo (VIII sec.),
restaurato ma riportato alle forme originarie,
con un bel chiostro e il monastero trasformato
in Museo del Sannio, contenente preziose
collezioni di reperti e opere di varie epoche.
La chiesa di sant’Ilario a Port’Aurea è
anch’essa longobarda, in un prato vicino
all’Arco di Traiano, stupendo, eretto tra il 114
e il 117 per l’inaugurazione della nuova via
Traiana.
Nel Medioevo fu inserito nelle mura e
chiamato appunto “Porta Aurea”. Da visitare
assolutamente anche il Teatro romano, costruito
sotto Adriano (126) e poi ingrandito da
Caracalla. La Rocca dei Rettori, il castello,
segna l’inizio del percorso di visita, lungo
corso Garibaldi; si incontra il Museo Arcos, che
ospita mostre (abbiamo visto quella dedicata
alla dea Iside) ed è vicino all’Hortus
conclusus, l’ex orto del convento medioevale
dei Padri domenicani, adibito ora a spazio
espositivo permanente di interessanti opere di
Mimmo Paladino, originario di Benevento. Fontane
e obelischi sono disposti a decorazione del
centro città, e adiacente, ad esso, per una
sosta rinfrescante e davvero piacevole, si trova
l’elegante Parco di Villa Comunale. Se si
aggiunge l’estrema pulizia di strade e
marciapiedi, il quadro è completo!
Al numero 145 di corso
Garibaldi, nelle sale a pianterreno di un
palazzo nobiliare, ha sede “Janua- Museo delle
Streghe”. Il percorso, guidato con competenza,
porta il visitatore a
ripercorrere, con angoscia,
la tragica vicenda di tante donne vittime di
veri e propri crudelissimi femminicidi del
passato. Donne esperte di erboristeria, in grado
di curare malattie, di aiutare le partorienti:
donne, spesso sole, che riuscivano a
sopravvivere vendendo miscugli e preparati
vegetali che potevano servire a disinfettare
ferite, a bloccare emorragie, oppure, in molti
casi, a procurare aborti in donne sfiancate da
eccessive gravidanze o violentate. Queste donne
guaritrici dovevano essere punite: sotto tortura
confessavano le più orride nefandezze (anche la
morte in culla dei neonati veniva addebitata a
loro, oppure morti improvvise di uomini e donne,
incidenti, cattivi raccolti) e venivano
condannate al rogo come streghe, complici del
demonio, con il quale si accoppiavano in sabba
intorno a un albero di noce... Il testo che per
primo fu utilizzato, anche se non ufficialmente,
per questa persecuzione è il Malleus
Maleficarum (1487) del frate domenicano
Heinrich Kramer, scritto, su invito di papa
Innocenzo III, con lo scopo di combattere
l’eresia e il paganesimo in Germania. Misoginia,
ignoranza, sadismo, volontà di schiacciare le
donne e la loro intelligenza furono un mix
davvero diabolico che portò l’inquisizione
cattolica (e non solo!) a bruciare vive migliaia
di donne, e anche molte ragazzine sotto i dodici
anni. Si stima che il numero delle vittime possa
essere ben superiore a 100.000. A Benevento e
nelle zone meridionali in genere la strega era
chiamata “Januaria”: forse non solo perché in
grado di...passare sotto la porta per compiere i
suoi delitti, ma anche perché seguace di Diana (dianara).
Per impedire l’ingresso alla strega occorreva
mettere davanti alla porta una scopa: presa
dall’irresistibile desiderio di contare i fili
di saggina (sic!) la strega sarebbe stata colta
dalle luci dell’alba e sarebbe poi fuggita...Le
ultime esecuzioni risalgono al XVIII sec., ma
ancora adesso in India e in alcune zone
dell’Africa, purtroppo, alcune donne vengono
accusate di “magia nera” e uccise barbaramente.
Monumenti a queste donne dovrebbero sorgere un
po’ ovunque: e a Benevento, dove furono
torturate e condannate almeno duecento “streghe”,
perché non erigere un monumento a Teresa di
Pesco Sannita, arsa nel 1430, e a Faustina Orsi,
che seguì la stessa sorte nel 1552?
Partiti a malincuore da
Benevento, ci siamo diretti verso Calitri,
attraversando l’Irpinia. Una sosta allo
splendido lago di Laceno, in
un vasto altopiano
a 1050 m s.l.m. dove pascolano le mucche, in
mezzo ai Monti Picentini, ci ha consentito di
assaggiare un ottimo tagliere con eccellenti
formaggi (pecorino dop!) e salumi locali. Anche
Calitri (Hotel Ambasciatori, con magnifica
piscina per un tuffo rinfrescante), in provincia
di
Avellino, nostra nona tappa, è stata una
piacevole sorpresa: borgo arroccato, con case
colorate piuttosto scenografiche, e un bellissimo panorama. Qui abbiamo gustato una
cena indimenticabile, alla Locanda dell’Arco,
all’interno di una cavità tufacea: atmosfera
piacevolissima e squisita cucina irpina di alto
livello.
Da Calitri a Marina di Ginosa
(Campania, Basilicata, Puglia)
Il giorno seguente ci siamo
dedicati a un breve trekking alle cascate di San
Fele, più a sud, in provincia di Potenza e
quindi già in Basilicata. Si parcheggia lungo la
strada e si comincia un percorso di un paio
d’ore al massimo, su sentieri e scalette, tra la
vegetazione, seguendo il corso del torrente
Bradanello, che forma, per salti di quota,
piccole cascate e laghetti. Siamo nell’Appennino
Lucano, e la bella escursione richiama parecchi
turisti. L’unica pecca è che, se non si vuole
riprendere il sentiero in senso inverso, poiché
l’itinerario non è ad anello ma si conclude
sulla strada asfaltata dalla parte opposta,
occorre tornare all’auto a piedi per 2-3 km, non
essendo stato ripristinato il servizio navetta.
Prevedere quindi buone scarpe e magari una
borraccia... Da San Fele ci siamo poi spostati a
Melfi, ad ammirare soprattutto il magnifico
castello normanno, sede di un interessantissimo
museo (stupendi i sarcofagi provenienti dagli
scavi della vicina Rapolla); è considerato uno
dei castelli medioevali meglio conservati e
domina la città, circondata da mura fortificate.
Melfi è uno dei centri principali della zona, il
Vulture, ricca di storia e di bellezze naturali:
sulla strada del ritorno, alla fine della nostra
“cavalcata appenninica”, abbiamo deciso di
sostare a Rionero in Vulture, riuscendo così a
fare una stupenda passeggiata anche ai laghi
vulcanici di Monticchio e all’abbazia di San
Michele, mete davvero imperdibili. Attraversando
Venosa, patria di Orazio, e altri paesi dai nomi
evocativi,
siamo giunti alla fine al mare.
Marina di Ginosa, decima tappa (BnB Villa
Sant’Angelo) è in Puglia, in provincia di
Taranto: il profilo “industriale” del porto si
vede dalla spiaggia. E’ un centro turistico
piuttosto affollato, in posizione strategica per
muoversi e raggiungere rapidamente lidi costieri
dalla sabbia finissima, come quello di
Castellaneta Marina, dove si trovano vaste
pinete e riserve naturali, perfette per
respirare aria balsamica e immergersi in acque
cristalline. La scelta può pure cadere su mete
meno balneari: ci siamo recati a Metaponto, la “città
di Pitagora”, dove il Museo Archeologico
conserva tali e tanti reperti, affascinanti e
preziosissimi, risalenti anche al VII sec a.C.,
che ne basterebbero un paio da esporre al
Palazzo Reale di Milano per creare lunghissime
code di visitatori… Metaponto fu uno dei centri
più importanti della Magna Grecia; da visitare
il Parco Archeologico, immenso, con resti di
colonne e templi, e le Tavole Palatine, con
il
magnifico Tempio di Hera (entrambi i siti sono a
ingresso gratuito). La città è in provincia di
Matera, siamo quindi di nuovo in Basilicata: e
sulla strada del ritorno, la visita ai “sassi” e
alle chiese rupestri di questo Patrimonio
dell’Umanità è imprescindibile. Avevamo visitato
Matera una ventina d’anni fa e abbiamo trovato
adesso una città molto più viva e ben
organizzata: pur concedendosi a un turismo quasi
“di massa” ha saputo ben mantenere il fascino
dei suoi luoghi incantevoli, quasi
indescrivibili.
Il nostro viaggio finisce dunque
qui, con le parole di Carlo Levi: Per me, sia
che io vada a Matera, sia che ci ritorni con il
ricordo, o che qualche immagine me la rammenti,
essa mi pare, più di ogni altra, un luogo vero,
uno dei luoghi più veri del mondo (…). Qui
ritrovi la misura delle cose, la concretezza dei
pensieri e delle immagini.
5 settembre 2021 Anna Busca
CAVALCATA APPENNINICA 2021 (seconda
parte) di Anna Busca
Da
Matelica a L’Aquila (Marche-Umbria-Abruzzo)
Prima di lasciare Matelica
siamo passati dalla chiesa della Beata Mattia,
che conserva il corpo di suor Mattia Nazzarei,
vissuta tra il XIII e il il XIV secolo e fatta
oggetto di culto e venerazione: è adiacente all
‘antico monastero delle clarisse. L’impianto di
riscaldamento del convento, che ospitava le
monache di clausura in gelide celle, fu
generosamente donato da Enrico Mattei, che era
uso frequentare la chiesa, un vero simbolo per i
cattolici matelicesi. Lungo la strada, una breve
sosta al cimitero cittadino, dove è sepolto
Mattei, nella tomba di famiglia: una costruzione
sobria, con una parte vetrata che consente di
scorgere l’interno dove, su un piccolo altare,
spiccano diverse fotografie. Il bassorilievo
sull’ingresso riporta due pavoni, simboli
cristiani della resurrezione e dell’immortalità.
Il nostro percorso è
proseguito verso sud, costeggiando i Monti
Sibillini. Visso e altri paesi attraversati
portano ancora le ferite del terremoto del 26
ottobre 2016 (magnitudo 5.9): centro storico
semidistrutto,
edifici pericolanti, dai muri squarciati, zone
transennate con divieto di accesso. Si entra
quindi in Umbria, in Valnerina: valle fluviale
verdeggiante, in cui il corso del Nera, dalle
acque fredde e limpidissime, un tempo era in
parte seguito dalla ferrovia a scartamento
ridotto (950 mm) Spoleto-Norcia, lunga 51 km,
inaugurata nel 1926 e chiusa nel 1968;
smantellata, è ora trasformata in pista
ciclabile e sentiero escursionistico. La
ferrovia era considerata un vero gioiello
ingegneristico: vantava 19 gallerie, 24 ponti e
viadotti, tratti di linea elicoidali, pendenze
fino al 4,5% . Veniva chiamata “il Gottardo
dell’Umbria”. Un museo a Spoleto raccoglie, per
gli appassionati, cimeli, immagini, carte,
documenti. Abbiamo pernottato in un albergo
sulla statale: l’Hotel Ristorante Pizzeria
Umbria, a poca distanza dal meraviglioso borgo
medioevale di Vallo di Nera, da visitare
assolutamente. Stupenda la chiesa francescana di
santa Maria, con un ciclo di affreschi del
XIV-XV secolo sulle pareti e dietro l’altare. A
Cerreto di Spoleto spiccava un manifesto che ci
ha incuriosito: “Festival del Ciarlatano,
20-21-22 agosto”. Abbiamo quindi scoperto che
questo paesino arroccato ha una storia
particolare: è conosciuto, fin dal ‘600, come il
“paese dei Ciarlatani”, i cui abitanti erano usi
a spacciare unguenti o altre medicine, a cavar
denti, a fare giochi di prestigio, ottenendo
denaro in cambio. Tale denominazione
probabilmente traeva origine da invidia per le
buone condizioni economiche dei cerretani, che
in buona parte riuscivano ad ottenere appalti
per ospedali e opere pie, per i quali erano
ottimi questuanti! Un museo è dedicato a loro...
Anche Scheggino merita una visita: il borgo è
molto bello,
con viuzze acciottolate, e si può visitare la
chiesa di san Nicola, con il catino absidale
magnificamente affrescato intorno alla metà del
‘500. Una bella passeggiata nel verde lungo il
fiume è estremamente piacevole. Noi abbiamo
anche approfittato di un tuffo rinfrescante in
una bella piscina, in località Valcasana. Anche
Scheggino ha il suo museo: questa volta dedicato
al tartufo, prezioso prodotto del territorio. La
sera, una cena al “Bacco Felice”,nel bellissimo
centro di Spoleto, reso ancora più affascinante
dall’illuminazione notturna, ha concluso
degnamente la giornata.
Riprendendo il viaggio,
abbiamo sostato a Sant’Anatolia di Narco, che
possiede un curioso “Museo della Canapa”
– molto
coltivata in Valnerina per la produzione di
tessuti e cordami - ed è un bel borgo medioevale
ben conservato, con chiese romaniche
interessanti. Certo il binomio “Narco” e Canapa”
è ben bizzarro! Ma “Narco” in questo caso è
semplicemente il nome di un antico popolo o il
nome del Nera...La visita all’abbazia di san
Pietro in Valle (VII-XIII sec.), in provincia di
Terni, ci ha poi portato ad esplorare uno
splendido complesso, in gran parte- ahimé-
trasformato in un elegante resort per pochi
eletti. L’ex monastero benedettino è infatti
proprietà privata ed è adibito a residenza
alberghiera di lusso, mentre la chiesa è della
curia ed è visitabile. Spicca l’alta torre
campanaria; all’interno della chiesa, a navata
unica, affreschi medioevali e rinascimentali e
bellissime lastre d’altare d’epoca longobarda. A
Ferentillo ecco l’ultimo museo particolare,
quello delle Mummie.
Occupa gli spazi di una chiesa del XIII sec.,
usata poi come fondamenta di un altro edificio
religioso due secoli dopo (chiesa di S.Stefano).
Qui furono sepolti diversi corpi, fino al 1871,
e le particolari condizioni ambientali ne hanno
consentito la mummificazione. Si possono anche
osservare particolari dell’abbigliamento,
ciocche di capelli, tracce di autopsie e altro;
si riconoscono due soldati napoleonici, una
giovane sposa, una donna morta di parto, con il
suo bambino… Da Ferentillo abbiamo poi raggiunto
in poco tempo la cascata delle Marmore,
artificiale ma bellissima (visibile già dalla
strada), a tre salti di 165 m complessivi, in
mezzo a un parco naturale. Risulta dalla caduta
di parte delle acque del fiume Velino nel Nera,
regolata da paratoie, in quanto utilizzata per
ottenere energia idroelettrica. L’accesso è
possibile sia dal basso che dall’alto ed è a
pagamento. Le lunghe code alle biglietterie e
l’enorme affollamento ci hanno dissuaso: ci
siamo dunque limitati a una passeggiata nella
zona del belvedere superiore e a uno spuntino a
un tavolino all’aperto, in uno dei numerosi
chioschi. Seguendo una bella strada ai piedi del
Monte Terminillo, sfiorando Cittaducale,
Antrodoco e L’Aquila, ci siamo fermati a Poggio
Picenze, paese di 1000 abitanti appartenente
alla comunità montana di Campo Imperatore (Paneolio
Food and Drink B&B ). A circa 750 m di altezza,
ha il centro storico ancora distrutto dal sisma
del 6 aprile 2009, che provocò in questa zona
abruzzese più di 300 vittime (magnitudo 6.3);
gli edifici inagibili sono parecchi, e vi sono
ancora abitanti che vivono in casupole
d’emergenza.
Abbiamo
perfino trovato una parrucchiera che ha il “salone”
in un container! L’Aquila invece ha avuto in
questi dodici anni sicuramente maggiori
contributi statali e, pur avendo ancora diversi
edifici in fase di recupero, è ritornata ad
essere una città viva anche turisticamente,
ricca di splendidi monumenti. Abbiamo rivisto
con grande piacere il Castello cinquecentesco,
la fontana delle 99 cannelle, la Cattedrale, la
meravigliosa basilica di Santa Maria di
Collemaggio.
Da L’Aquila a Campobasso (Abruzzo-Lazio-Molise)
Dopo la visita alla città, il
viaggio è continuato verso sud, attraversando lo
stupendo altopiano delle Rocche, nel Parco
Sirente-Velino, dove una sosta a Rocca di Mezzo
ci ha anche consentito di gustare squisiti
arrosticini. La nostra sesta tappa è stata Sora,
in provincia di Frosinone, dove ci siamo fermati
due notti (Hotel del Sole). Lo scorso anno, nel
nostro tour della Ciociaria, non eravamo
riusciti a vedere la città: la scelta quindi è
andata anche a “chiudere” simbolicamente il giro
dell’estate 2020 (vedi “Tra Acropoli e Mura
ciclopiche”, sez Turismo corrierebit.com,
settembre 2020). Sora ci riserva piacevoli
sorprese: circondata da monti boscosi, è
attraversata dal corso sinuoso del Liri, che si
può valicare con diversi ponti che collegano le
due sponde alberate.
Ha
dunque il fascino di tutte le città sui fiumi.
Prima dei Volsci, poi dei Sanniti, fu
conquistata dai Romani nel IV sec. a.C. Qui
probabilmente nacque Cicerone- poi trasferitosi
nella vicina Arpino
– e sui resti di quella che fu la sua
casa natale fu costruita la bella abbazia
cistercense di San Domenico (XI sec.), con un
chiostro romanico e una cripta. Passeggiando nel
centro, ecco piazza Indipendenza con la
cattedrale e piazza Santa Restituta con la
chiesa omonima. Gli edifici religiosi sono stati
negli anni molto rimaneggiati e ricostruiti,
anche in seguito a terremoti come quello del
1915. Vale la pena salire per circa 409 gradini
fino alla Chiesa della Madonna delle Grazie, in
posizione dominante, da cui si gode un magnifico
panorama. A Sora nacque Vittorio De Sica, il 7
luglio 1901: all’epoca
la città era campana. Una lapide commemorativa
consente di riconosce la casa, che è da più di
un secolo di proprietà della
famiglia
Giannuzzi. Si trova in pieno centro, in via
Cittadella, una stradina piena di vita e di
fiori, dove si affacciano localini dai nomi che
ricordano il grandissimo attore e regista e dove
si può cenare o prendere un aperitivo. Sora è
anche il punto di partenza per visitare i
dintorni: non solo la Ciociaria, ma anche mete
storico-artistiche come l’Abbazia di
Montecassino o naturalistiche come il Lago di
Posta Fibreno, perfetto per una sosta di relax.
L’Abbazia, pur essendo stata quasi completamente
ricostruita dopo i terribili bombardamenti del
15 febbraio 1944 ad opera degli angloamericani,
ha una grandiosità e una ricchezza che la
rendono stupefacente e sempre meritevole di una
visita. Certo le preziose decorazioni e
l’aspetto di mausoleo non sembrano in sintonia
con le rigide e semplici regole monastiche del
fondatore S.Benedetto da Norcia, che qui giace
nel sepolcro, vicino alla sorella santa
Scolastica…
Da Sora abbiamo seguito
strade secondarie, ricche di tornanti, salite e
discese, che ci hanno consentito di attraversare
lo splendido Parco Nazionale d’Abruzzo-Lazio-Molise,
tra foreste di faggi, piccole cascate e scenari
incantevoli. Chi ha tempo e attrezzatura adatta
può entrare nella Riserva Naturale della
Camosciara, nel cuore del Parco, per escursioni
e trekking, per esempio sul sentiero G5. Come
suggerisce il nome, è possibile l’avvistamento
di camosci d’Abruzzo.
Il
lago di Barrea ci ha invogliato a una breve
passeggiata fino alle sue sponde; ad Alfedena
siamo entrati nel centro storico attraverso una
delle sue porte urbiche, per ritrovarci poi a
compiere un percorso pedonale molto interessante
lungo le rive del Rio Torto, che nasce dai Monti
della Meta a circa 1400 m s.l.m. e poi arriva a
entrare nell’abitato, tra fitta vegetazione, in
una stretta gola. Le acque sono cristalline e
l’ambiente circostante è quasi idilliaco. Il
fiume uscendo dal paese, confluisce nel Sangro;
la sua lunghezza complessiva è di circa 4 km.
Giunti a Isernia, ci siamo ritrovati nella
piazza principale, piazza Celestino V,
assolutamente deserta (complice certo la calda
giornata di Ferragosto), davanti
a
una bella fontana ad archetti, detta Fraterna,
che abbiamo scoperto essere il simbolo della
città: costituita da lastre di marmo con
epigrafi, provenienti da resti romani, e anche
da sarcofagi, è un prezioso quanto raro
assemblaggio di opere di periodi diversi. La
piazza, molto ampia, è stata in realtà ricavata
dallo spazio lasciato dalle case distrutte
durante i terribili bombardamenti alleati del
1943 e la fontana vi fu spostata da un’altra
piazzetta. La visita del centro storico, lungo e
stretto, in pendenza, è consistita semplicemente
nel seguire una via rettilinea che funge da vero
asse: corso Marcelli, l’antico decumanus maximus.
Interessante il duomo di S. Pietro, costruito
sui resti del tempio di Giove (visitabili);
palazzi nobiliari e torri di origine medioevale
si susseguono. Nonostante una prima impressione
non positiva (i quartieri periferici sono
piuttosto squallidi) dobbiamo riconoscere invece
a Isernia un notevole fascino, sensazione che
sarebbe probabilmente anche aumentata se fossimo
riusciti a visitare il Museo Nazionale del
Paleolitico, in località La Pineta. Qui, scavi
iniziati negli anni ‘70 hanno portato alla luce
resti ossei e manufatti dell’Homo
heidelbergensis vissuto nella zona circa 600.000
anni fa e soprannominato “L’Uomo di Isernia”. Il
sito è riconosciuto dall’UNESCO come uno dei più
importanti al mondo: sarà una meta della
prossima volta! Da Isernia, una strada piuttosto
veloce e senza traffico attraverso i colli
verdeggianti del Molise ci ha portato alla
nostra settima tappa appenninica: Campobasso. Ci
siamo fermati due notti: la prima all’Hotel
Rinascimento, fuori città, e la seconda in
prossimità del centro (Casa Angela B&B). La
città è stata una sorpresa: un bellissimo
castello (Castello Monforte), da
cui si gode un
grandioso panorama, magnifiche piazze, splendidi
palazzi, spazi verdi con fontane, un centro
storico arroccato con mille viuzze e scalette
che s’intrecciano, belle chiese; una statua in
bronzo di Fred Bongusto (poco somigliante a dire
il vero) ci ricorda che il cantante nacque
proprio qui. Strade e marciapiedi sono
pulitissimi: il che dimostra che non è
necessario trovarsi in Svizzera per incontrare
senso civico e rispetto dei luoghi!
4 settembre 2021 Anna Busca
CAVALCATA APPENNINICA 2021 (Prima
parte )
Scegliere per
l’agosto 2021 un itinerario di viaggio di una
ventina di giorni, tutto italiano, che
prevedesse fondamentalmente tappe mai da noi
toccate, non è stato facile: ma alla fine ci
siamo riusciti. E ne è risultato un percorso
tortuoso e a tratti impervio ma ricchissimo di
bellezza, sia artistica che paesaggistica, di
incontri, di storia. Indimenticabile.
Da Modena ad Arezzo (Emilia
Romagna-Toscana)
Partendo da Milano e seguendo
l’A1, ci siamo fermati a Modena per la
necessaria pausa pranzo. Una passeggiata in
centro, decisamente poco affollato, ci ha
consentito di rivedere capolavori come
l’imponente Palazzo Ducale, il magnifico Duomo
romanico, l’alta Torre Ghirlandina.
Vicino
a questa, una lapide ha attirato la nostra
attenzione: “AL TVAJOL ED FURMAJIN”, “Il
tovagliolo del Formaggino”. Scopriamo una storia
che ci era ignota. “Così chiese ai modenesi che
venisse chiamato il piccolo spazio che c’è fra
la Ghirlandina e il monumento al Tassoni Angelo
Fortunato Formiggini, accingendosi a
testimoniare con il suicidio l’assurdità delle
leggi razziali. Nel cinquantesimo anniversario
di quel tragico evento i modenesi, esaudendo il
desiderio del geniale editore concittadino, ne
accolgono il messaggio antirazzista e ricordano
alla coscienza civile degli Italiani l’infamia
del regime che promulgò le leggi razziali”.
L’editore Formiggini, di ricca famiglia ebrea,
coltissimo ideatore di collane di successo,
laureato in Giurisprudenza e in Filosofia, si
lanciò dalla torre il 29 novembre 1938 - pochi
giorni dopo l’ultimo regio decreto fascista “Provvedimenti
per la difesa della razza italiana”, che
riteneva tanto insensato e ingiusto da non
rendere più possibile la sua stessa
sopravvivenza - sfracellandosi nello spazio che,
con tragica ironia, aveva voluto battezzare in
quel modo. Aveva sessant’anni ed era uno
straordinario intellettuale, portatore di
altissimi valori morali: la sua figura è
senz’altro da ricordare e approfondire.
Lasciata Modena, abbiamo
raggiunto quella che era in realtà la vera prima
tappa della nostra “cavalcata appenninica”,
lungo la spina dorsale della nostra penisola:
Riolo Terme, in provincia di
Ravenna,
centro grazioso, con un grande parco e una bella
rocca sforzesca, visitabile e sede di mostre.
Famosa per le acque termali idrogeno-solforate (i
Bagni sono ora di una società privata), Riolo
richiama turisti anche perché è un bel punto di
partenza per visitare gli interessanti dintorni,
ricchi di boschi e sorgenti (pernottamento
all’Hotel Ciclamino). Ci siamo infatti recati a
vedere l’abbazia di San Giovanni Battista in
Valsenio, risalente al X secolo, e il borgo
medioevale di Brisighella, con la sua Rocca
manfrediana, trecentesca, bellissima (chiusa il
lunedì), e l’antica “Via degli Asini”, una lunga
strada lastricata, coperta e sopraelevata, che
serviva un tempo anche al trasporto del gesso,
dalle cave, su birocci trainati da asini. Tutta
la zona è infatti ricca di questa roccia
sedimentaria, originatasi per evaporazione di
acque marine e successiva precipitazione di
solfato di calcio, verificatesi soprattutto nel
Terziario.
Passando da Modigliana,
interessante per i resti della Rocca dei Conti
Guidi, per il cosiddetto Ponte “della Signora” (ricostruzione
settecentesca
di un ponte medioevale) e per la pinacoteca
comunale dedicata a Silvestro Lega che qui
nacque (aperta però solo la domenica pomeriggio),
ci siamo spostati a Tredozio (provincia di Forlì-Cesena),
nell’alta valle del Tramazzo, per poi dirigerci
verso il Monte Busca (767 m s.l.m.). Qui
l’attrazione turistica è rappresentata da quello
che viene erroneamente definito “il vulcano più
piccolo del mondo”: si tratta in realtà di una
bocca metanifera, alla sommità di un cono di
sassi, di dimensioni ridotte, da cui fuoriesce
il gas che brucia
sprigionando
fiamme anche piuttosto alte. Non è facilissimo
trovarlo perché si trova dietro un casolare
abbandonato, in uno spiazzo di terra battuta,
davanti a un magnifico panorama. E’ noto dal XVI
secolo: viene infatti citato dal frate
domenicano bolognese Leandro Alberti in una sua
opera del 1577 (Descrittione di tutta Italia), e
la località in cui si trova viene detta
“Inferno”. Fu sfruttato per breve tempo, in
epoca fascista, alla fine degli anni Trenta,
dalla Società Idrocarburi Metano; nel dopoguerra
suscitò l’interesse di una società statunitense,
la Macmillan Petroleum Corporation, ma il
giacimento fu poi definitivamente abbandonato
perché considerato di scarsa importanza
economica.
Proseguendo per strade e
stradine dell’appennino tosco-emiliano,
attraversando Bagno di Romagna, con la sua bella
chiesa romanica di S. Maria Assunta, e i fitti
boschi delle pendici del Monte Fumaiolo, ci
fermiamo nei pressi di Subbiano (provincia di
Arezzo), seconda sosta del nostro itinerario.
Abbiamo pernottato in un luogo davvero magico,
l’Albergo Ristorante La Gravenna, nei pressi di
un torrente, circondato dalla vegetazione, con
una vasca di acqua dolce: l’interno è una sorta
di “camera delle meraviglie” che lascia davvero
incantati. Pasolini era solito trascorrervi
lunghi periodi di quiete, e la lista di clienti
famosi è lunga… La tappa obbligata,la mattina
successiva, dopo un’eccellente colazione, è
sicuramente Arezzo, già visitata in passato ma
sempre meritevole di una passeggiata nel centro
storico.
In cima a un colle,
l’affascinante
città
toscana di origini etrusche, patria del Petrarca,
si esplora con vero piacere, a partire dalla
chiesa di San Domenico, che conserva al suo
interno lo straordinario Crocifisso ligneo di
Cimabue, fino alla piazza Grande, dalla
caratteristica pendenza, con le logge del
Vasari, alla Cattedrale dei santi Pietro e
Donato, con la meravigliosa arca trecentesca, le
terrecotte invetriate di Andrea della Robbia e
la stupenda Maddalena di Piero della Francesca,
al Palazzo dei Priori. Un’immersione nella
bellezza!
Da Arezzo a Matelica
(Toscana- Marche)
A una trentina di km il borgo
di Monterchi possiede un capolavoro di Piero: la
Madonna del Parto, affresco della metà del ‘400,
di cui
non
si conosce il committente. E’ stato spostato più
volte ed ora è possibile ammirarlo all’interno
di un piccolo museo civico (le donne incinte
entrano gratuitamente!), mentre fino all’inizio
degli anni ‘90 si trovava in una cappella. La
madre del grande pittore era nata a Monterchi, e
questo ha suscitato una serie di ipotesi circa
la scelta inusuale di rappresentare Maria in
stato di avanzata gravidanza, in una posa che la
assimila a una sorta di tabernacolo vivente.
Superata Monterchi, abbiamo
proseguito soprattutto per stradine secondarie,
seguendo fiduciosi il navigatore in quanto privi
di carte automobilistiche adeguate, tra paesaggi
agricoli e boschi, valicando l’appennino
umbro-marchigiano. Ed eccoci a Matelica (provincia
di Macerata), terza sosta, ospiti dello storico
hotel Fioriti, in pieno centro, che presenta
davanti al portone d’ingresso, protetto da una
grande teca di vetro, un bel pavimento musivo di
epoca romana trovato durante gli scavi
archeologici della città. Il nome “Matelica”ha
origini oscure, forse celtiche, e viene già
citato da Plinio il Vecchio. Qui nel 1919 si
trasferì con la famiglia, da Acqualagna dove era
nato nel 1906, Enrico Mattei, geniale
fondatore
dell’ENI e figura chiave dell’Italia del secondo
dopoguerra: la città gli ha dedicato una grande
piazza. Una nipote, Rosangela - figlia del
fratello Italo Mattei - dedica invece da anni
tutte le sue energie, con grande determinazione,
per tenerne viva la memoria e per cercare di
ottenere quella giustizia che da quasi
sessant’anni viene vergognosamente calpestata e
negata. Il 27 ottobre 1962, infatti, Enrico
Mattei, attirato in una vera e propria trappola,
fu vittima di un attentato insieme al pilota
Irnerio Bertuzzi e al giornalista statunitense
William McHale. Il piccolo aereo Morane Saulnier
su cui viaggiavano da Catania a Milano precipitò
a Bascapè, poco prima di atterrare all’aeroporto
di Linate. Menzogne e depistaggi tennero lontana
la verità e solo tra il 1994 e il 2003, grazie a
una riapertura dell’inchiesta, che era stata
chiusa troppo frettolosamente, si trovarono le
prove di quanto era avvenuto: non un malaugurato
incidente, come si era costantemente ripetuto,
bensì un’esplosione a bordo , dovuta a una
carica di Compound B collocata dietro il
cruscotto e innescata dal comando di discesa del
carrello. La scomparsa di Mattei, che stava
costruendo una proficua rete di rapporti
internazionali che avrebbe portato a un
cambiamento nella politica della gestione del
petrolio, a vantaggio dei Paesi produttori (e
dell’Italia) e a svantaggio dei profitti iniqui
delle Sette sorelle, le maggiori compagnie
soprattutto anglo-americane, riportò la
situazione allo stato precedente, favorendo
squilibri e neocolonialismi che, come purtroppo
sappiamo, sono stati poi la causa principale
delle “guerre del petrolio”. Restano tuttora non
ufficiali i nomi dei mandanti e degli esecutori
dell’attentato, anche se una rosa di nomi “eccellenti”
italiani- per lo più defunti- è già ben nota.
Rosangela Mattei si batterà fino all’ultimo
affinché sia fatta luce totale sul “caso Mattei”:
e si renderebbe così giustizia anche a tanti
altri morti, come il giornalista Mauro de Mauro,
sequestrato nel 1970 mentre stava indagando
sugli ultimi giorni di Mattei in Sicilia, per
conto del regista Rosi, e mai più ritrovato.
Rosangela ha inaugurato recentemente il Museo
Mattei di Matelica ( https://museo-enrico-mattei.business.site
), nel palazzo di via Umberto I, come luogo dei
ricordi e come “punto di partenza per sviluppare
l’opera e gli ideali di Mattei”. E’ qui che
gentilmente mi ha dato l’opportunità di un
incontro, di grande interesse per tutte le
informazioni che mi ha fornito e davvero
emozionante.
3 settembre
2021 Anna Busca
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