martedì, Maggio 13, 2025
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AL COCCIA DI NOVARA “LA SCALA DI SETA” DI ROSSINI E LA PRIMA DELLA “SCALA” DI FEDERICO GON

Da alcuni anni una delle più interessanti iniziative del Teatro Coccia di Novara è il progetto DNA Italia, che ad ogni stagione porta in scena una farsa giovanile del pesarese, preceduta da un lavoro nuovo commissionato dal teatro ad un compositore contemporaneo. Tale lavoro deve essere, in vario modo, secondo la scelta dell’autore, una sorta di prequel dell’opera rossiniana rappresentata. Ieri, domenica 11/05, è andata in scena l’ultima delle tre recite della “Scala di seta”, per la prima volta a Novara, farsa composta nel 1812 da G. Rossini, introdotta dall’atto unico, in prima assoluta nella prima recita di venerdì 9/05, “Prima della scala” del musicologo e compositore triestino, nato nel 1983, Federico Gon. Il titolo della sua opera naturalmente non si riferisce al Teatro alla Scala, ma alla farsa rossiniana di cui è appunto una sorta di prologo. Il libretto vanta una firma autorevole, quella di Stefano Valanzuolo, tra i principali responsabili di Rai tre suite e autore di numerosi testi teatrali e libretti d’opera. In verità, il rapporto tra “Prima della scala” e “La scala di seta”, sul piano della trama è piuttosto labile e tutto esteriore: l’opera di Valanzuolo-Gon narra di un proprietario di circo, Zabatta, che, stanco del suo mestiere, decide, dopo essersi finto morto, di ‘resuscitare’ come impresario di teatro d’opera. La prima opera che rappresenterà sarà, naturalmente, “La scala di seta” …E qui cala il sipario.
Semmai, ciò che accomuna le due opere è proprio il clima farsesco che impronta entrambe, o, più sottilmente, come spiega lo stesso Valanzuolo nel programma di sala, l’ambientazione circense del prologo, che gioca con “gli eterni schemi del teatro e dell’opera” (citiamo), così come, in fondo, la musica di Rossini. Va aggiunto che il tema della ‘veglia funebre’ di un vivo, con maneggi vari e un progettato omicidio per impadronirsi della sua eredità, rimandano a un altro testo archetipico della farsa musicale italiana, il ‘Gianni Schicchi’ pucciniano. Come sempre Valanzuolo ammette, si tratta di un divertissement, senza alcuna pretesa di confronto con l’opera rossiniana, che non avrebbe avuto alcun senso. Ovviamente cast dei cantanti, regista, scenografo, orchestra e direttore sono gli stessi della successiva “Scala di seta”. La chiave interpretativa di sceneggiatura e regia, per entrambi gli atti unici, è proprio il circo, l’elemento portante della bella scena di Matteo Capobianco: il circo in quanto metafora di una dimensione onirica, dell’immaginazione, dei giochi vari e sempre mutevoli della fantasia e , se vogliamo, della musica di Rossini, soprattutto del Rossini comico, sorta di circo sonoro, in cui la realtà della vita umana sembra quasi dissolversi in un fantastico vortice di musica, coi suoi travolgenti crescendo, sino, in alcuni memorabili  casi, a raggiungere il puro nonsense. Dunque la scena consiste in un ambiente circense, ricco di colori (come i bei costumi curati dallo stesso Capobianco), che sembra però visto come in sogno, irreale, favoloso, straniante. In questa scena il movimento dei personaggi, però, non ha nulla di irreale o casuale, ma è regolato da un meccanismo rigoroso, guidato dalla sapiente regia della bravissima Deda Cristina Colonna (un assai gradito ritorno al Coccia, il suo), da lodare anche per la cura della recitazione attoriale dei cantanti, in particolare dell’espressione del volto e della gestualità. Anche la qualità musicale dello spettacolo è stata in generale  buona: la bacchetta del direttore Francesco Pasqualetti ha diretto bene l’Orchestra Filarmonica Italiana: nel ‘prologo’ di Gon con un giusto stacco dei tempi e preciso controllo di timbri e dinamiche ha messo in rilievo il carattere di questa musica, fedele alla tonalità, come stranamente sospesa in una dimensione fuori del tempo, coi suoi richiami a realtà del tutto diverse, dalla marcia funebre alla musica da circo, con echi anche dalla tradizione, accompagnando al meglio il libretto, ‘leggero’ , ma raffinato di

Valanzuolo. Valida anche la direzione della “Scala di seta”, ancora una volta con corretta scelta dei tempi e con una  gestione del rapporto tra buca e cantanti complessivamente corretta, ma non senza  qualche momentaneo affanno. Tra i cantanti di un cast di apprezzabile qualità, il soprano tedesco, di origini ucraine, Alina Tkachuk, è stata una discreta  Giulia nell’opera di Rossini e valida  interprete di Nina in quella di Gon: la Tkhachuk possiede uno strumento vocale timbricamente luminoso e di buona proiezione in tutta la tessitura, morbido nell’ascesa agli acuti, ma limitato da una dizione non sempre chiara. Da lodare i suoi melismi, cantati  con eleganza, con ottimi filati e finissime mezze voci. Discrete le sue qualità teatrali. Una bella sorpresa è stato poi per noi il giovane tenore Paolo Nevi. Ventottanni quest’anno, ha già la maturità di un cantante affermato. Appartenente al cast B, quello che ha cantato sabato, è stato chiamato a sostituire nel cast principale l’americano Michele Angelini, improvvisamente indisposto, nel ruolo di Ezio nella “Prima della scala” e in quello di primo tenore, Dorvil, ne “La scala di seta”. Ha sfoggiato una voce dal timbro intenso ed energico in tutta l’estensione, dall’ottima tecnica, che gli permette di raggiungere con fluidità i numerosi Do acuti che gli sono richiesti dalla partitura rossiniana: insomma siamo di fronte a un tenore notevole per una vocalità di squisito belcantismo, dal tono sentimentale espressivo ed elegante.

Un ottimo giudizio esprimiamo anche sul baritono messicano Emmanuel Franco, buffo ne “La scala di seta” nei panni del servo Germano. In questa farsa Rossini crea una figura piuttosto originale di buffo, rispetto alle usanze del tempo: il Germano della “Scala di seta” è infatti un personaggio cui si richiede una presenza in scena più frequente rispetto a quella normalmente caratteristica di questa categoria di cantanti (può ricordare alla lontana, per questo, il Figaro di Mozart e dello stesso Rossini): di fatto, è il motore della vicenda; soprattutto, accanto all’elemento prettamente comico, questo personaggio conosce anche momenti ‘seri’ di sentimentalismo vicini al pathos (è segretamente innamorato di Giulia). Non è un personaggio di facile interpretazione, ma Franco affronta la parte con encomiabile bravura scenica, unendo una maturità vocale, di notevole estensione, che spicca nelle lunghe melodie che spesso gli sono affidate, dove è chiamato sovente a dar prova delle sue virtù tecniche da una fitta scrittura melismatica. Per quanto riguarda le parti di fianco, il mezzosoprano Yo Otahara, giapponese, ma con formazione prevalentemente italiana, ha interpretato Lucilla nella farsa di Rossini, dimostrando buone risorse sceniche, ma una qualche immaturità vocale, nella fragilità della voce, un po’ debole nei centri e talvolta a disagio negli acuti.
Corretto nelle sue parti, il tenore Davide Lando, Zabatta nell’atto unico di Gon e Dormont in quello rossiniano mentre al basso turco Dogukan Ozkan, Silvano nella ‘Prima’ e Blansac nella ‘Scala’, madre natura non ha donato un gran timbro e sul piano espressivo e attoriale è apparso poco incisivo.  Il pubblico, non numeroso come da consuetudine, con qualche poltrona vuota di troppo in platea, ha applaudito con convinzione uno spettacolo gradevole, ben curato e divertente.   (Foto dall’Ufficio Stampa di Novara)
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