venerdì, Maggio 2, 2025
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Shirin Neshat – BODY OF EVIDENCE al PAC

Fino all’8 giugno 2025 si potrà visitare, al Padiglione di Arte Contemporanea (PAC) di via Palestro, dal martedì alla domenica, l’interessante mostra Body of evidence (“Corpo del reato”) dell’artista iraniana Shirin Neshat. Nata nel 1957 a Qazvin, a 150 km da Teheran, a 17 anni si è trasferita negli U.S.A. per motivi di studio; ha scelto di rimanervi a seguito della rivoluzione islamica del 1979 che portò al potere l’ayatollah Khomeini, trasformando l’Iran in una soffocante teocrazia coranica. Vive a New York.

Regista e fotografa, Shirin Neshat è tornata più volte nel suo Paese di origine, da lei molto amato e rimpianto, e ha catturato volti, strade, paesaggi, in ritratti, immagini e filmati che sono il frutto di una riflessione profonda soprattutto sul ruolo della donna in Iran. L’operazione culturale compiuta dall’artista mette in luce, con sensibilità e grande talento, le contraddizioni di una società oppressa da princìpi religiosi sessuofobici, che di fatto cancellano la libertà individuale e i diritti più elementari, con obblighi e divieti che colpiscono particolarmente le donne, ma che alla fine coinvolgono tutti. Per i suoi lavori, ha vinto il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1999, il Leone d’Argento per la miglior Regia al Film Festival di Venezia del 2009, il Praemium Imperiale a Tokyo nel 2017.

La mostra presenta circa duecento fotografie e una decina di video-installazioni, frutto dell’attività svolta in un arco temporale di trent’anni. Il video iniziale, Fervor (2000), mostra un uomo e una donna, avvolta in uno chador nero, che quasi si sfiorano camminando in un paesaggio deserto, per poi ritrovarsi, inconsapevolmente, nello stesso luogo affollato, per un incontro pubblico, forse religioso. Sembra che si scambino uno sguardo, ma le donne – tutte in nero – e gli uomini – con una camicia bianca – sono separati da una lunga tenda scura e non possono vedersi. Il contrasto cromatico rende con efficacia la distanza di genere.

L’unica voce che si sente è quella di un uomo, che da un palco tiene un discorso. Si intuisce (non ci sono sottotitoli, per scelta dell’artista), dal tono perentorio e quasi minaccioso, che sta trattando un argomento importante: si tratta di una parabola coranica che invita a evitare il peccato del desiderio. La donna, turbata, si alza e se ne va.

Il video – in bianco/nero) è il terzo di una trilogia. Gli altri due, Turbulent (1998) e Rapture (1999), trattano in modo diverso lo stesso tema: nel secondo, un gruppo di donne riesce a salire su una barca e ad allontanarsi in mare aperto, sotto lo sguardo di uomini che le salutano (ma si trovano in una specie di fortezza, e vicino a loro ci sono cannoni).

Altri video mostrano situazioni inquietanti e tragiche, come in The Fury (2023), dove la protagonista è una ragazza seminuda circondata da militari; la sua danza sensuale è un inno alla bellezza del corpo e alla libertà, ma alla fine la giovane compare segnata da lividi e graffi, segni di tortura e di stupro, e cammina per strada vacillando, con lo sguardo spento. Purtroppo molte donne iraniane detenute vengono torturate e abusate dalla polizia, se non addirittura uccise (Mahsa Amini, accusata di non aver indossato bene l’hijab, morì nel 2022 per le violenze subìte dalla polizia morale, tre giorni dopo l’arresto).

Sulla balconata è esposta la serie fotografica più famosa di Shirin Neshat, Women of Allah (1993-1997). In alcuni scatti compare proprio lei, con lo chador, obbligatorio in Iran. In corrispondenza delle parti scoperte del corpo, soprattutto viso e mani, sulla stampa fotografica, sono stati scritti manualmente testi in lingua farsi, con inchiostro nero o rosso. I ritratti sono potenti, appaiono come urla silenziose. Da non perdere.

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