Il titolo del lavoro, in scena nella Sala Tre del Teatro Franco Parenti fino al 14 dicembre, si riferisce all’albero che Anna, anziana affetta da demenza e ricoverata dalla figlia Marcella in una casa di cura, vede dalla finestra della sua stanza: e la pianta diventa quasi una persona, cui Anna si rivolge con affetto nei momenti di solitudine. Il dramma, opera della trentottenne drammaturga, sceneggiatrice e scrittrice Giulia Lombezzi, che ne ha curato anche la regia, è stato premiato nel 2018 (Scena &Poesia) e nel 2019 (Premio Anima Mundi e menzione speciale al Premio Calindri).

Il tema della vecchiaia, della perdita di memoria e della difficoltà relazionale, soprattutto in ambito famigliare, degli anziani malati di Alzheimer o di forme neurodegenerative simili, insieme ai problemi di accudimento che sorgono inevitabilmente, è caro alla Lombezzi, che ha recentemente pubblicato, per Bollati Boringhieri, il romanzo L’estate che ho ucciso mio nonno.

Il linguaggio usato è spesso crudo, senza veli, come quando l’infermiere Martino rimprovera Anna di aver defecato in un cestino nel corridoio invece che in bagno; e racconta, impietoso, di casi di ricoverati che si denudano, o lasciano in giro pannoloni sporchi, o si riempiono tasche e maniche di cibo. Marcella è il personaggio in cui l’autrice certamente s’immedesima maggiormente, anche se Anna potrebbe essere una sua immaginaria proiezione nel futuro, molto temuta in quanto spaventosa per le sue implicazioni: non solo quindi la figura rievocata di sua nonna – è proprio la Lombezzi ad affermare che L’Albero è la sua storia – o di quello che potrebbe diventare sua madre. Delicato e commovente è il momento in cui Marcella sembra tornare bambina, riemerge la memoria di una lontana vacanza: è in riva al mare, gioca, cade, si fa male a un ginocchio e chiama più volte “mamma”, non trovandola all’inizio. Passato e presente si mescolano in un vortice di ricordi che portano a tristezza e malinconia, ma pure a un senso di oppressione, di insopportazione per quanto succede.

L’assonanza tra “Anna” e “mamma” viene utilizzata anche per una specie di dialogo disperato ed emblematico tra Marcella e Martino, con Anna al centro, muta e impotente. L’anziana è sorda (all’inizio la figlia comunica con lei con un simbolico altoparlante) e fatica a camminare; spesso cade, e uscire in giardino per arrivare all’albero è una vera conquista. A volte riesce a essere autoironica e divertente; ma manifesta anche paura, si ribella perfino, e rievoca un passato infelice di moglie vessata dal marito, della cui morte si dichiara contenta. A un certo punto non riconosce più la figlia, e cerca la sua bambina, che l’ha chiamata e ha bisogno di lei. Il desiderio di morire emerge, e sarà una sorta di liberazione.
Ottimi gli interpreti: Alice Bignone (Marcella), Camilla Violante Scheller (Anna), Ermanno Rovella (Martino), applauditi con calore dal pubblico.


