Daniel Barenboim ritorna alla Scala per Beethoven

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Un ritorno davvero significativo quello di Daniel Barenboim alla testa della Filarmonica della Scala.

L’ottantatreenne direttore argentino ha collaborato a lungo e con continuità con il Teatro milanese, dove dal 2007 è stato una presenza regolare e dal 2011 al 2014 ha ricoperto il ruolo di Direttore musicale. Ritrovarlo oggi sul podio, dopo un periodo di assenza, assume quasi il valore di un piccolo evento, carico di memoria e di una certa emozione condivisa. Per questa occasione, articolata in tre serate, Barenboim ha scelto un programma interamente dedicato a Beethoven. La prima replica, da me seguita ieri sera, è stata accolta con entusiasmo dal pubblico, che ha percepito immediatamente la qualità dell’incontro fra un direttore dalla lunga storia beethoveniana e un’orchestra che conosce intimamente.
I due celebri brani in programma — il Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 61 e la Sinfonia n. 5 in do minore op. 67 — hanno suscitato unanimi apprezzamenti. Di grande spessore la presenza solistica di Lisa Batiashvili, violinista nata a Tbilisi ma da molti anni residente in Germania. Interprete di rara eleganza, ha saputo fondere la morbidezza del suo suono con il perfetto equilibrio classico ricercato da Barenboim, sostenuto dagli splendidi orchestrali scaligeri.
Il Concerto op. 61, uno dei brani più eseguiti al mondo, ha trovato così una lettura raffinata, attenta al respiro della frase e alla trasparenza delle linee. Le cadenze di Alfred Schnittke, scelte per il primo movimento e per il Rondò finale, sono apparse ben integrate nel tessuto beethoveniano, e la violinista le ha restituite con sicurezza e naturalezza, senza mai forzare l’impianto dell’opera. Molto apprezzato anche il bis offerto dalla solista: una trascrizione per violino e archi della celebre Aria sulla quarta corda di J. S. Bach, eseguita con un controllo del suono quasi ipnotico.
Dopo un breve intervallo, la serata è proseguita con la Quinta Sinfonia, affrontata da Barenboim con un gesto essenziale, spesso accennato, e con una postura sorprendentemente raccolta, quasi sempre seduta. Questa economia del gesto non impediva però una chiara presa sul suono: il direttore ha privilegiato un dosaggio timbrico di impronta classica, puntando su una trasparenza quasi cameristica e sulla precisione dei dettagli in ogni settore dell’orchestra. Ne è nata una lettura equilibrata, attenta a non drammatizzare eccessivamente il celebre “destino che bussa alla porta”, ma piuttosto a far emergere l’architettura dei quattro movimenti. L’impressione complessiva era quella di una sinfonia restituita con lucidità, senza enfasi inutili, e con una calibratura timbrica che permetteva a ogni sezione di respirare con naturalezza. Il pubblico ha salutato il direttore con applausi calorosissimi e numerose chiamate alla ribalta, quasi a voler prolungare il senso di questo ritorno tanto atteso quanto riuscito. (Foto in alto di Brescia e Amisano -Archivio Teatro alla Scala -riferite al primo concerto)