In crociera sull’Elba (il fiume, non l’isola) da Amburgo a Berlino

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La crociera fluviale non assomiglia per niente a quelle classiche sul mare. I partecipanti sono qualche decina e non qualche migliaio, la nave è dimensionata in proporzione ed il paesaggio che scorre non ha gli immensi spazi marittimi, ma si svolge in mezzo al verde e alle colline ed è assolutamente rilassante. E poi niente mal di mare!

È insomma un viaggio organizzato terrestre come tanti, comprese le escursioni in autobus per raggiungere le mete non toccate dalla nave, ma, come nelle crociere classiche, con l’enorme vantaggio dell’albergo che ti vien dietro e ti risparmia di fare e disfare valigie ogni volta.

La vita di bordo prevede alcuni eventi: aperitivi, corsi di cucina, giochi di società e così via. Chi come me preferisce godersi la campagna circostante che scivola via può rimane sul ponte superiore, il sundeck. Le occasioni mondane cui non si deve mancare si riducono ad un cocktail di benvenuto all’inizio, con presentazione dell’equipaggio, ed uno corrispondente di commiato alla fine. Un solo piccolo sacrificio: le cabine, pur confortevoli, sono un po’ meno spaziose di quelle d’un albergo medio.

Le chiuse (solo 9, e qualcuna passata di notte) non sono mai state una noiosa perdita di tempo, come non lo sono mai state nelle altre crociere fluviali fatte in precedenza; in compenso sono stati uno spettacolo l’ascensore di Scharnebeck, l’alta chiusa di Uelzen ed il ponte-canale dalle parti di Magdeburgo.

Per la verità abbiamo risalito l’Elba solo all’inizio, per una quarantina dei 382 km totali della crociera; poi per il 70% su canali affluenti, principalmente l’Elbe/seiten, il Mittelland e l’Elbe-Havel, e infine sul fiume Havel che tocca Berlino e più che un fiume è tutta una successione di laghi, laghetti, diramazioni e specchi d’acqua d’ogni forma e dimensione. L’Elba, che dà il titolo alla crociera ma passa lontano da Berlino, lo abbiamo perciò perso subito di vista, ma l’abbiamo brevemente ritrovato a Lauenburg, e poi a metà viaggio poco a nord di Magdeburgo, ma solo per incrociarlo sul ponte-canale già ricordato.

Le spiegazioni dateci sul tragitto e sulle tappe effettive della navigazione sono state molto vaghe e imprecise (il tragitto esatto l’ho ricostruito dopo), ma c’è una ragione: il traffico sui canali e l’ordine di passaggio alle chiuse richiedono continui accordi fra barcaioli e gestori delle chiuse, secondo le circostanze, con cambi di programma anche all’ultimo, per evitare o ridurre al minimo ogni perditempo. La tabella di marcia va quindi decisa al momento ed è programmabile in anticipo solo a grandi linee. Un plauso ai nostri due capitani della nave per aver saputo risparmiarci attese anche di ore, in posti dove poteva non esserci niente da visitare.

L’agenzia italiana è la Giver; la nave Johannes Brahms e l’intero equipaggio, chef compreso, sono olandesi. A bordo si parla con gli inservienti in inglese e tedesco, e qualcosa pure in italiano: nel viaggio il commissario di bordo ha imparato un po’ della nostra lingua: a chi gli dice “grazie!” lui risponde “mille!”. Per ogni difficoltà il personale Giver, italiano, provvede a tradurre e risolvere ogni problema. I due autobus noleggiati per le escursioni (polacchi, come i loro autisti!) sono sempre gli stessi: ci sono venuti dietro per tutto il viaggio.

L’aspetto medio del paesaggio in queste zone non è spettacolare: è tutta pianura, orlata solo qua e là da lievi colline. La campagna in compenso è verdissima, con pochi abitati e lunghi tratti in ambienti bucolici, spesso fra boschi fitti. Quando poi si lascia il canale e si entra nell’Havel, la sfilata dei laghi e laghetti è tale che ad ogni istante cambiano le vedute, all’opposto della monotonia dei canali.

Nelle città ho notato che si è acuito un problema già conosciuto: i ciclisti! Sfrecciano con pochi riguardi sui marciapiedi dove hanno le loro corsie, marcate ma spesso poco distinguibili; i capannelli di turisti come noi ingombrano il marciapiede e non fanno troppa attenzione, finché non ne arriva qualcuno a tutta birra. D’altronde non ne siamo (ancora) abituati. Quando un pedone attraversa la strada al semaforo e crede di essere al sicuro non appena giunto dall’altra parte, è invece lì che comincia il vero pericolo. La Germania è un paese verde, perciò, nelle città, guerra all’auto e largo alla bici; ma, calate le une e cresciute le altre, i pericoli per i pedoni si sono solo trasferiti dalle 4 alle 2 ruote.

La trasferta dall’aeroporto ci regala una prima occhiata di Amburgo, per quanto periferica; notiamo i bei laghi a nord, con parecchi tizi che remano in piedi su tavole galleggianti. A quanto pare qui il SUP è molto in auge.

L’arrivo è un po’ deludente: la nave è in un bacino in mezzo al porto, lontano dalla città; d’altra parte è quasi sera e, fra la stanchezza per il viaggio e le sistemazioni varie, non c’è tempo per darsi alle visite.

Cocktail di benvenuto: l’equipaggio arriva nel salone a gruppi a suon di musica; esaurito lo show le guide ci istruiscono sui vari regolamenti della vita di bordo e sui programmi della crociera.

Cena naturalmente a bordo, avendo la pensione completa; iniziamo a fare un po’ di conoscenze.

L’aspetto della zona circostante scoraggia ogni passeggiata serale.

La mattinata seguente è dedicata ad Amburgo. L’autobus ci porta all’imbocco sud del tunnel, oggi solo pedonale, che passa sotto l’Elba con 2 canne parallele (una in restauro) e sbuca in città. È un’opera curiosa, con grandi ascensori sotto cupole di vetro e fregi liberty (è del 1911) in maiolica. Fino al 2019 vi passavano anche le auto, con certi limiti, ma non c’erano rampe di accesso: prendevano l’ascensore anche loro.

Riprendiamo gli autobus, che intanto han fatto il giro per i ponti moderni, e in breve siamo alla chiesa di S. Michele che troviamo inaspettatamente chiusa; dobbiamo accontentarci dell’esterno, poco interessante; ma lì vicino c’è un bel cortile con casette caratteristiche, fra le poche antiche sopravvissute alla guerra.

Ancora in autobus facciamo adesso un giro per il vivace quartiere St. Pauli, con molti ritrovi giovanili e il monumento ai Beatles, che qui hanno esordito sul continente; ne intravvediamo il locale in Große Freiheit straße. Poi si passa il celebre mercato del pesce e si va al porto, dove gli estesi magazzini, rosso mattone e un po’ uniformi, sono ormai tutti riciclati in locali alla moda o spazi espositivi, come avviene in tutti i porti. La guida locale ci racconta che tutto l’assieme è matrimonio mondiale dell’Unesco; ma si corregge subito. Passiamo anche sotto la colossale recentissima filarmonica degli architetti Herzog e De Meuron.

Continuiamo a nord nei verdeggianti quartieri chic intorno al lago Außenalster; le rive hanno un aspetto balneare, in acqua passano barche a vela e canoe, e ci sono sempre quelli che remano in piedi. Rientriamo in centro e ci fermiamo al neorinascimentale municipio, scenografico ma relativamente moderno.

Ero già stato stato ad Amburgo, ma avevo visto solo il centro, e di fretta; il giro di oggi pur sbrigativo ci voleva. Purtroppo la guerra ha piallato gran parte delle antichità, qui come in tante città tedesche. Per chi ama le opere moderne invece c’è molto da vedere, specie nella ristrutturazione dei magazzini portuali.

Dopo pranzo, escursione in autobus a Lubecca, la capitale della Lega Anseatica. Ero già stato anche qui, e con più calma, essendo meglio conservata; ma la rivedo volentieri.

La Holstentor, principale porta di accesso, fa sempre un bell’effetto con lo sfondo di diversi campanili aguzzi. Lì accanto, su uno dei bracci del fiume Trave che circondano il centro, sono interessanti i magazzini del sale, merce preziosa nei secoli passati, che veniva commerciato via fiume e poi per mare.

Le case sono per lo più in stile anseatico, con mattoni a vista e tipico frontone triangolare a scalini, diffuso in tutto il nord tedesco.

La struttura del municipio comprende più fabbricati, di epoche e stili diversi, disposti ad L sulla piazza e sovrastati da muraglioni con grossi fori circolari per il vento e orlati di torrette. Di queste torricelle è piena la città, e a guardarle bene si nota che sono tutte variamente storte: non ce n’è una verticale. Interessante l’ospedale di S.Spirito, dove la lunga sala dormitorio contiene stanzette con pareti di legno per la privacy.

Lubecca è anche la città del marzapane.

La sera inizia la navigazione, in origine prevista alle 4 del mattino dopo. Meglio: il cambio di programma permette di vedere un’ultima volta la città, che ci scorre davanti dal fiume, prima di cena. Splendido tramonto rosato. Si risale quindi l’Elba fra i sobborghi tranquilli e verdeggianti. Ci sono case e casette, tutte buie tranne una sola: ci chiediamo se è là che c’è la festa.

Con l’oscurità che avanza, e il fiume che ormai serpeggia fra i boschi, si alza improvvisa la luna, che per di più è piena, con magnifico effetto sulle acque. Sarebbe anche la sera delle stelle cadenti, ma bisognerebbe aspettare il buio totale e non se ne vedono.

Si passa la prima chiusa e più avanti si lascia l’Elba in vicinanza di Lauenburg, che vedremo domani, per entrare nell’Elbe-seiten kanal (canale laterale dell’Elba). Per la notte la nave si ferma davanti all’ascensore di Scharnebeck, che passeremo domani. Ma nessuno si accorge di tutto questo, perché siamo a dormire da un pezzo; io e pochi altri abbiamo solo intuito il passaggio alla chiusa per qualche lieve scossone.

La mattina, escursione in autobus a Lauenburg. Dopo un tragitto nella bella campagna, il paese si presenta scenicamente affacciato sull’Elba, che attraversiamo. È un bel borgo con case a graticcio ed un castello che lo domina dall’alto. Siamo nel punto più meridionale dello Schleswig-Holstein, il Land sotto la Danimarca, e siamo anche vicini al confine con l’ex DDR, la Germania-Est: il monumento al marinaio che sulla riva del fiume lancia richiami ai barconi in realtà si rivolge(va) ai fratelli d’oltre cortina.

Tornati alla nave, oggi il pranzo si svolge per una volta sul sundeck, all’aperto e sotto un sole a picco. La ragione è che mentre si mangia passiamo l’ascensore di Scharnebeck, e lo spettacolo non sarebbe stato adeguatamente apprezzabile dalla solita sala all’interno. Non si tratta di una normale chiusa: qui la nave entra nell’enorme ascensore fatto a vasca e viene sollevata con l’acqua e tutto. Si sale di 38 m, mica poco, e le vedute sono scenografiche. C’è anche un bel po’ di gente a terra che si gode l’azione, e noi stessi facciamo parte dello spettacolo.

Appena dopo si riprende l’autobus; la nave ha navigato per neanche un chilometro. Dopo un breve tratto in campagna si raggiunge Lüneburg, città celebre per le miniere di sale destinato tra l’altro ai magazzini di Lubecca visti ieri, e ragionevolmente risparmiata dalla guerra.

La miniera, oggi chiusa e trasformata in museo, è stata la fortuna e la ricchezza della città; ma ha anche provocato nel tempo il fenomento della subsidenza, per cui il terreno sprofonda a causa del crollo delle gallerie e molte case lì attorno sono un po’ storte; una presenta un muro rigonfio che l’ha fatta soprannominare “la casa incinta”. La parte più pittoresca del centro è il porto fluviale, chiuso in fondo da un alto mulino a graticcio. Qui c’è la gru in legno del 1346 e rifatta nel 1797, per caricare e scaricare i barconi. All’epoca non c’erano motori, e le manovelle non bastavano; nell’interno gli uomini entravano in due grandi tamburi, e li facevano girare come criceti in gabbia.

Si riprende l’autobus ma si viaggia verso sud: la nave intanto naviga sul canale, parallela ma ad una certa distanza. La raggiungiamo presso Uelzen, dove c’è un’altra chiusa pure questa molto alta (23 m) ma di tipo tradizionale. Si continua sul canale adesso soprelevato: c’è un certo panorama sulla campagna intorno, che non ti aspetteresti di vedere da una nave, e si scavalcano strade, ferrovie, e quant’altro. Si costeggia poi una collina a destra che anima il paesaggio.

La navigazione prosegue mentre si cena e poi nelle tenebre. Mi sveglio però in piena notte e così vedo il passaggio alla chiusa di Sülfeld, che mi sorprende perché è in discesa e non in salita, come uno si aspetta su un percorso che parte dal mare e va all’interno. In realtà siamo passati sul Mittelland kanal, che ha una diversa altimetria. Poco più avanti riconosco la colossale insegna luminosa della Volkswagen e capisco che siamo giunti a Wolfsburg, la città creata nel 1938 attorno alla fabbrica, dove si attracca. Riprendo a dormire.

Siamo proprio davanti all’Autostadt, lo spazio espositivo che visitiamo a piedi in mattinata. Questo è il posto dove chi deve comprar l’auto viene a sceglierla e provarla; può venirci in gita con la famiglia perché c’è tutto: ristoranti, negozi, divertimenti (perfino l’acquapark) e quant’altro, e i bambini hanno ovviamente i loro spazi attrezzati. Quando è pronta, la macchina esce dalla fabbrica e viene impilata in uno dei due silos a torre, che si visitano, e ci resta finché arriva il cliente a ritirarla. S’intende che tutto è automatizzato e robotizzato; mi viene in mente la farmacia dove le medicine arrivano sul banco cadendo da un tubo. A pensarci, anch’io dovrei cambiare l’auto; ma il giochino della prenotazione e ritiro funziona solo per i Tedeschi.

La cosa più interessante, almeno per me, è il museo con cimeli d’ogni sorta, non solo VW. Su qualcuno di quelli, chi ha qualche capello bianco in testa come me ha viaggiato da bambino, e fa effetto vedere che piccole automobiline erano.

È cambiato il capitano della nave: quello “vecchio” ha raggiunto il limite di 14 giorni lavorativi di seguito e gli subentra il nuovo, arrivato con moglie e figlio. Quest’ultimo coi suoi quasi 5 anni è il passeggero di gran lunga più giovane, e lunedì prossimo tornerà a scuola; il bello è che in Olanda a quell’età va in seconda!

La nave riprende il viaggio sul canale, che, non essendo più soprelevato come ieri, adesso è inevitabilmente scavalcato ogni tanto da ponti, che sono dannatamente bassi (5,25 m, misura standard), malgrado siano relativamente moderni come il canale stesso (1938), perché i costruttori han preso le misure sulle chiatte merci. Chi come me viaggia sul sundeck è bene che guardi sempre in avanti, e quando ne arriva uno deve sedersi; chi sta in piedi rischia il cranio. Comunque c’è sempre qualcuno dell’equipaggio a vigilare. La stessa situazione vista in altre crociere fluviali era risolta vietando l’accesso al sundeck. In quei casi però i ponti bassi erano rari e si poteva; qui sono così frequenti che un divieto del genere sarebbe improponibile; ma ci sarà un’eccezione, alla fine.

Entriamo intanto nell’ex DDR. A 35 anni dall’unificazione il cambio non si nota più: niente torrette di guardia alle frontiere, e i paesi di qua e di là hanno la stessa fisionomia. Nel salone proiettano il film Le vite degli altri, proprio per capire come si viveva ad est prima della riunificazione.

Più avanti compare all’orizzonte verso nord una strana montagna isolata che nella luce radente del tramonto appare bianca brillante. È il Kalimandscharo di Zielitz: così chiamano l’enorme discarica di scarti della locale miniera di potassio, non l’unica in Germania ma una delle maggiori al mondo. Oggi la montagna è una bomba ecologica, ma anche un’attrazione turistica, ed è la cima più alta della regione. È anche un esempio di quanto una volta si badasse all’ambiente, specie sotto la DDR.

Qui il canale, ora di nuovo soprelevato, si biforca: a destra va verso Magdeburgo, ed era previsto di fermarsi qui per la notte. Ma ancora cambia il programma, e ancora in meglio perché avremmo passato il ponte-canale l’indomani ancora col buio. Invece si va dritto imboccando un tratto moderno (2003) dove ritroviamo subito l’Elba e lo scavalchiamo sul kanalbrücke Magdeburg, il ponte-canale definito acquedotto nelle spiegazioni forniteci. È il termine esatto, ma disorienta un po’ perché siamo abituati ad associarlo all’acqua potabile che qui non c’entra affatto. Si tratta invece in generale di una conduttura d’acqua che viaggia su un ponte come se fosse una strada; e qui c’è il canale navigabile sopra, e il fiume sotto. Non è un ponte unico; ce ne sono molti simili, specie in Francia (uno dei più celebri è sull’Allier, presso la confluenza nella Loira dalle parti di Nevers), ma questo è il più lungo d’Europa, forse del mondo (918 m). Avevamo pure scavalcato strade, autostrade e ferrovie, qui e in altri punti, ma erano passate quasi inosservate: quello di una nave che passa una quindicina di metri sopra un fiume è invece uno spettacolo abbastanza originale.

Questo passaggio evita Magdeburgo (una decina di km a sud), che di conseguenza non possiamo visitare; anche nel programma d’origine ne saremmo stati lontani. Ma non è una grave perdita: quella sfortunata città è stata rasa al suolo nell’ultima guerra, e ne è rimasto ben poco, a parte il duomo; certi isolati addirittura erano vuoti ancora una trentina d’anni fa, la prima volta che c’ero capitato, e gli altri sono moderni, in stile realismo socialista. D’altronde non era una città d’arte.

Ancora un’altra chiusa, in discesa, e si continua sull’Elbe-Havel kanal. Poco dopo ci fermiamo a Burg bei Magdeburg; ma il porto fluviale è lontano dal paese e non c’è niente da vedere: siamo nel nulla. Ma la sera è fresca, il luogo tranquillo, e si chiacchiera volentieri.

Si parte alle prime luci dell’alba e si continua sul canale; altre due chiuse ancora in discesa. Fra Genthin e Brandenburg finisce il canale, si entra nell’Havel e tutto cambia: subito si attraversa il primo d’una sfilza di laghi, laghetti, anse, ramificazioni e bracci che vanno di qua e di là in mezzo ai boschi e disorientano piacevolmente. Tutti questi specchi d’acqua sono popolati di cigni, anatre e volatili vari, e frequentati da barche, motoscafi e battelli di escursioni; le rive sono disseminate di campeggi. L’ambiente prende perciò un aspetto balneare, ma di gente in acqua ne vediamo poca: le acque non hanno un’aria invitante.

A Brandenburg si arriva attraversando una zona industriale. Un’altra chiusa, adesso in salita, poi la nave gira attorno al duomo, mente pranziamo, e attracca fra il duomo e il centro, tutti su isole distinte.

Brandenburg ha più di mille anni di storia. Si chiama così anche il Land dove ci troviamo, ma il capoluogo è Potsdam. Alle 4 del pomeriggio escursione a piedi: l’ora non è l’ideale, fa un caldo feroce, ma non si può cambiar programma. Si comincia col duomo, che si trova entro un borgo fortificato sul suo isolotto collegato da un ponticello. Aveva due torri, ma una è crollata per il terreno acquitrinoso. Interno luminoso; belli l’organo e il pulpito, e curioso l’antico armadio presso l’altare, ma la cosa più bella è che fa fresco. La passeggiata continua scavalcando i vari bracci del fiume, con belle vedute (e richieste di percorsi all’ombra), fino al bel municipio in stile anseatico, e poi alla chiesa di S. Caterina. Qua e là si vedono statuette bronzee d’un cane cornuto: è il Waldmops o Carlino delle foreste, animale di fantasia ideato da Loriot, un comico tedesco molto popolare, nativo di qui e autore di spettacoli con questi animaletti. Ricordano un po’ gli gnomi sparsi per le strade di Breslavia (Wrocław) in Polonia.

Si parte ancora alle prime luci dell’alba, come ieri; ma adesso si continua sul fiume, o piuttosto sulla bizzarra successione di specchi d’acqua, ed il paesaggio è sempre continuamente diverso. La nave imbocca una strettoia fra un lago e l’altro, scavalcata dal famoso ponte delle spie (Brücke der Spione, propriamente Glienicker Brücke) in mezzo a colline boscose col castello Babelsberg. Subito dopo c’è Potsdam.

Si arriva in centro città e ci sono due ponti in rapida successione, bassi come al solito; però il secondo, quello della ferrovia, è peggio degli altri. Sul sundeck, tutti seduti come sempre, e abbassare anche la testa; ma un passeggero resta in piedi guardando altrove e non sente le urla sempre più disperate che gli segnalano l’imminente disastro. Sto per intervenire, ma arriva prima il secondo di bordo che si tuffa su di lui e lo stende a terra, appena in tempo. È stato l’eroe del viaggio.

Attracchiamo quindi a Potsdam senza lamentar vittime, e ritroviamo i nostri fidi autobus in attesa.

Cominciamo la visita con la Nikolaikirche, la cui cupola (imitazione della londinese St. Paul) dominava già il paesaggio all’arrivo; davanti è stato da poco ricostruito fedelmente il castello cittadino, di cui non restava traccia dalla guerra, e che infatti non ricordavo dalla prima volta che ero venuto qui. Le case attorno sono le solite anonime costruzioni del dopoguerra. Si continua passando vicino alla curiosa stazione di pompaggio, del 1843, per alimentare le fontane del parco, travestita da moschea.

Siamo così nel parco del Sanssouci, la risposta prussiana allo sfarzo di Versailles. Si prosegue a piedi nel verde accanto al mulino a vento (che funziona) fino alla reggia, coi giardini antistanti scenograficamente in discesa e la gran fontana in basso; il tempo tiranno impedisce di arrivare al lontano Neues Palais, la residenza vera e propria, un po’ sproporzionata, che intravvediamo da lontano in fondo al viale.

Ripreso l’autobus torniamo nel centro a vedere il curioso quartiere olandese, realizzato da architetti e operai olandesi fatti venire ai tempi perché esperti in costruzioni su terreni acquitrinosi.

Si riprende a navigare rifacendo un breve tratto del percorso di arrivo e ripassando sotto al ponte delle spie.

Adesso l’Havel è particolarmente largo, e le rive boscose; a destra si apre il bacino del Wannsee, con in fondo l’omonimo abitato; segue il Grunewald, forse il maggior polmone verde berlinese: stiamo infatti rasentando ormai la capitale. Poi uno stretto; il paesaggio diventa industriale e siamo a Spandau, un centro più antico della stessa Berlino e che meriterebbe una visita. Un’ultima chiusa sempre in salita, all’altezza della cittadella, un interessante esempio di architettura militare italiana, poi di nuovo il fiume si allarga. Arriva l’ennesimo ponte: stavolta è talmente basso che sul sundeck vengono piegate sedie, tavolini e perfino le ringhiere, vietando a tutti di salire. Due ultimi ponti meno rischiosi, poi le case sulle rive si diradano e riprendono i boschi. Si lascia il fiume per entrare nel Tegeler see, all’inizio ancora costellato di isole e isolette, poi ampio e tranquillo. Attracchiamo al porto turistico e finisce la navigazione.

Siamo in un ambiente placido, una dozzina di km in linea d’aria dal centro, vicini all’aeroporto di Tegel; nessun rumore, però: è stato chiuso 4 anni fa e verrà trasformato in un’area verde, come già successo per l’altro aeroporto, quello di Tempelhof in piena città, chiuso nel 2008.

A sera è prevista la “cena di commiato col comandante”: peccato che l’interessato non ne sapesse niente!

L’intera giornata successiva è dedicata a Berlino. È una città che nel ‘900 ha cambiato pelle, le prime volte volente o nolente, per la guerra e la successiva divisione, e l’ultima, che continua tuttora, liberamente per risorgere. Un proverbio dice che Berlino è condannata a divenire sempre, e non essere mai. Trenta e passa anni fa, la prima volta che c’ero venuto, il muro era crollato da poco e si capiva che gli spazi vuoti e le aree malandate ancora visibili non potevano rimanere così.

È naturale che la città, con tutta la storia recente due volte tragica, richiederebbe diversi giorni per la visita; ma ne abbiamo uno solo. Anche una descrizione sommaria esigerebbe pagine e pagine.

Prima breve sosta al settecentesco castello di Charlottenburg; continuiamo quindi fra i lussuosi negozi e le sedi di prestigiose società dell’elegante Kurfürstendamm, vetrina dell’Ovest ai tempi della guerra fredda. Poi per il vasto e verdeggiante parco del Tiergarten arriviamo al Reichstag, il solenne parlamento. Rimasto un mezzo rudere dalla guerra, me lo ricordo ancora male in arnese, coi restauri appena iniziati; adesso è in ottima forma. Giriamo a piedi per le opere moderne lì attorno, tra cui i palazzi degli uffici sulle due sponde della Sprea, collegati da un ponte pedonale nel punto esatto dove passava il confine. Tutte le costruzioni post-riunificazione della città presentano forti elementi evocativi.

Siamo poi inevitabilmente alla vicina porta di Brandeburgo, uno dei simboli della città, mille volte fotografata quando era chiusa dal muro e circondata di spazi desolatamente vuoti, nella terra di nessuno. Qui, come in tutto il suo sviluppo, una fila di cubetti in porfido segna a terra il percorso preciso del muro.

Passiamo in mezzo alle 2710 steli del monumento all’Olocausto: da fuori sembrano tutte alte uguali, ma non lo sono: è il terreno, nascosto, che è in pendenza, e perciò disorienta; questo serve a far meditare sull’inganno di tutte le dittature.

Ripreso l’autobus troviamo il Checkpoint Charlie, il più famoso fra i passaggi nel muro: un luogo che in sé non ha niente di speciale, se non fosse per tutta la storia che c’è dietro. Nuova sosta al Gendarmenmarkt, con i due duomi, francese e tedesco, settecenteschi e gemelli, che si fronteggiano. Poi per l’Unter der Linden attraversiamo l’ottocentesca isola dei musei, dove sono concentrati i più importanti e celebri della città fra due rami della Sprea, fino alla vastissima e celebre Alexanderplatz, vetrina dell’Est ai tempi della guerra fredda. Qui l’altissima torre della tv fa ombra alla gotica Marienkirche, unica costruzione sopravvissuta alla guerra nella zona.

Si continua sulla Karl-Marx-Allee, di impronta sovietica (in fondo è di lì che sono entrati i Russi): una parte è staliniana, e i poderosi palazzoni hanno una certa eleganza; il resto è sempre severo ma più anonimo. È comunque interessante e bene han fatto gli urbanisti a conservarla, anche nel nome, invece di cedere alla damnatio memoriae e alla furia distruttrice come i passati regimi, oltre che a ricostruire molte opere abbattute da quegli stessi regimi. Naturalmente non poteva mancare il famigerato muro: i resti più cospicui (East Side Gallery) sono nella Mühlenstraße lungo la Sprea; tra i vari murales che lo rivestono il più gettonato (e perciò difficilissimo da fotografare causa folla) è quello che riproduce il celebre bacio fra Breznev e Honecker, da una foto del 1979.

Pranziamo per una volta in un ristorate, bavarese, zona Alexanderplatz: ci servono abbondante e fumante arrosto di maiale con patate e crauti di contorno, e fuori ci sono 35°!

Pomeriggio libero: non avendo preso l’escursione ai musei, già visti, giriamo per il quartiere ebraico: i cortili (Hackescher höfe), il vecchio cimitero usato in guerra come smistamento degli ebrei prima di avviarli ai lager, la sinagoga con la cupola scintillante. Poi all’Unter der Linden, dove è sempre piacevole passeggiare “sotto i tigli”. Accanto al duomo m’interessa il castello, in realtà un palazzone settecentesco anche questo non rilevante; però me lo ricordavo raso al suolo e contornato da una sagoma in grandezza naturale a simulare l’originale: non si era ancora deciso allora cosa farne, e me n’era rimasta la curiosità. Lo ritrovo ricostruito fedelmente (almeno all’esterno), e fa un certo effetto vedere adesso un castello che trent’anni fa non c’era.

Cocktail di commiato: si ripete lo show dell’equipaggio che entra a gruppi a suon di musica come all’arrivo. In più alla fine tutti cantano!

Non ero mai venuto a Berlino in aereo, e vedo adesso che al grandioso aeroporto di Schönefeld (quello nuovo) gli autobus si fermano lontano, e all’aperto. I passeggeri devo scarpinare a lungo con bagagli e tutto; in compenso davanti all’ingresso c’è un grande spazio vuoto. Farà un bell’effetto, ma non era meglio usare quella superficie per fare avvicinare gli automezzi, e magari regalare un passaggio coperto ai pedoni?

Due parole sull’organizzazione. In generale tutto ha funzionato, e non ci sono stati inconvenienti o intoppi al programma, salvo nel tornare alla nave dalla visita di Berlino, dove i tempi sono stati calcolati male e non rispettati.

Guaio: manca il caffè espresso a bordo! Per una comitiva tutta di italiani è grave! C’è la pensione completa ma a bordo ogni bevanda, al di là dell’acqua a tavola, è extra.

Ottima la cucina, internazionale e coi soliti piatti enormi: il massimo si raggiunge quando arrivano grandi fondine con appena una cucchiaiata di contenuto, secco; ma subito dopo aggiungono il brodo e il tutto diventa una zuppa di volume normale, e anche buona. Una messinscena ironica?

Ottimi e fantasiosi anche i dolci.

Altro neo: nel pacchetto niente voli diretti, ma tutti con uno scalo intermedio, il che ha costretto a dedicare due intere giornate ai trasferimenti.

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