La straordinaria serata svoltasi in Sala Verdi, nel Conservatorio milanese, è iniziata con la salita in palcoscenico di Ilaria Borletti Dell’Acqua Buitoni, Presidente della Società del Quartetto, e di Enrica Ciccarelli, Presidente della Società dei Concerti, unite nel presentare i due protagonisti del concerto: Antonio Ballista (30 marzo 1936) e Bruno Canino (30 dicembre 1935).
Entrambi ottantanovenni – ma Canino prossimo ai novanta – rappresentano il duo pianistico più longevo al mondo ancora in attività.Il concerto riflette con naturalezza quel continuum musicale che il duo incarna da settant’anni, unendo tradizione, modernità e una curiosità che non li ha mai abbandonati.
La prima parte della serata si è mossa nel solco della tradizione più classica con la splendida e celebre Sonata in re maggiore K. 448 per due pianoforti di Mozart (1781), con il suo dialogo limpido e serrato. Sono seguite le più rare Variazioni in la b. maggiore op. 35 D 813 di Schubert (1824). La loro cantabilità distesa ha portato a un’atmosfera intima e cameristica, che i due pianisti hanno sempre saputo far respirare con naturalezza.
La seconda parte del concerto ha riguardato esplicitamente il Novecento, il terreno che più ha definito una parte importante della loro carriera, un repertorio in cui hanno mostrato ancora una volta di eccellere. Partendo dai Trois morceaux en forme de poire di Satie (1903), per pianoforte a quattro mani, hanno evidenziato quella vena teatrale e ironica tipica del compositore francese. L’Omaggio a Edvard Grieg, per due pianoforti, di Niccolò Castiglioni, scritto per loro dal grande compositore milanese, testimonia il rapporto diretto con i compositori contemporanei e con una musica più complessa, dove gli elementi ritmici, le pause e la capacità di dosare le due parti pianistiche, spesso in alternanza, hanno trovato un’interpretazione di altissimo livello. Un capolavoro che, nello stile compositivo, ricorda certamente il compositore francese O. Messiaen.
A seguire, il più eseguito brano per due pianoforti, Scaramouche op.165 bis di Darius Milhaud (1937), ha chiuso il programma ufficiale elargendo una brillantezza ritmica e una fantasia costruttiva appariscente nell’estemporaneità dell’interpretazione.
Nel suo insieme, il concerto non è stato soltanto un viaggio attraverso stili diversi: è stato piuttosto il ritratto di un duo che, arrivato a un’età straordinaria, continua a far convivere rigore e fantasia, memoria e scoperta, come se la musica fosse davvero – come per loro è sempre stata – una forma di vita. Applausi calorosissimi, omaggi floreali e un bellissimo bis a quattro mani con un eccellente Ravel: “Laideronnette, impératrice des pagodes” dalla suite Ma mère l’oye (1910–1911). Serata splendida, da ricordare sempre.