FAMILIAR TOUCH di Sarah Friedland

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Con grande sensibilità, la regista esordiente Sarah Friedland, trentatreenne statunitense, ha voluto toccare – o meglio solo sfiorare, come una carezza, un “tocco”, appunto – un tema molto attuale, ossia le problematiche affettive, personali e famigliari, legate a forme di demenza senile. Il film (premiato all’81^ Mostra del Cinema di Venezia) nasce dalla sua esperienza di caregiver per anziani; e sua nonna paterna fu ricoverata in una casa di cura.

La protagonista è Ruth (l’eccellente attrice Kathleen Chalfant): ottantenne elegante, certo piuttosto ricca, con un passato da chef autrice di libri di ricette, vive sola in una bella casa. Purtroppo soffre di amnesie, e si scopre fin dall’inizio che la sua mancanza di memoria è tale da non consentirle neppure di riconoscere il figlio Steve, architetto (H. Jon Benjamin), per il quale ha comunque apparecchiato e preparato uno spuntino raffinato.

Steve in realtà è venuto a trovarla per portarla in una sorta di “country house geriatrica”, come viene definita da uno dei medici che vi lavorano. La struttura è molto bella; lei ha una stanza singola ben arredata, in giardino si trova perfino una piscina, usata dagli ospiti per esercizi riabilitativi; si organizzano giochi, feste, e si è seguiti da personale sanitario gentile e preparato.

In particolare viene curata dall’infermiera Vanessa (Carolyn Michelle Smith), con la quale instaura un rapporto amichevole. Ruth vorrebbe però tornare a casa, non si sente a suo agio; l’unico momento di gioia lo vive quando si ritrova nella cucina e il cuoco le lascia preparare una macedonia e alcuni piatti particolari per gli ospiti. Ricorda ricette a memoria, a tratti non sembra affatto malata. Non viene mai rivelato di che cosa soffre, ma è certo che si tratti di una patologia neurodegenerativa.

Quello che lei a un certo punto apprende è che non potrà mai più riprendere a vivere nella sua casa: ormai la sua sistemazione è definitiva.

In una scena, si vede Steve che dà disposizioni ad addetti di una ditta di trasporti per portare via mobili e oggetti dall’abitazione di Ruth; e la figlia adolescente, che lo accompagna, apre il suo armadio, si prova un cappotto cammello e decide di tenerlo. “La nonna doveva essere bellissima”, dice la ragazza, e il padre replica “Sì, e tu le assomigli”.

Ruth è dunque ormai un fantasma del passato: per la sua famiglia, per se stessa, per tutti. E il film stesso assume questa connotazione: scorre lieve, esile, con brevi momenti in cui si comprende che nella fragile mente della protagonista affiorano antichi ricordi, che spesso la turbano. Il film non ha una conclusione, s’interrompe durante una visita medica di routine cui la donna si sta sottoponendo; si è tristemente consapevoli che i suoi ultimi giorni saranno trascorsi in una sorta di prigione dorata e alla fine Ruth, come la sua memoria, svanirà nel nulla.

Girato in una vera casa di riposo, Villa Gardens di Pasadena, in California, il film si è avvalso della recitazione di ospiti e personale della stessa; la Friedland aveva già avuto esperienze registiche simili, e molto positive, per alcuni suoi cortometraggi.

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